di Mario Fresa
Quando
i personaggi rossiniani si ritrovano in gruppo, o comunque non agiscono da
soli, diventano matti. Ascoltateli, invece, nelle arie solistiche: lì ciascuno
di loro dòmina sé stesso (e la scena) con un'acuminata e perfida lucidità,
disponendo la scacchiera del gioco, le sue trame e le segrete sue
macchinazioni, con luciferina destrezza. Ma tutto cambia (e tutti vanno in
ciampanelle) nei concertati o nei finali, quando i nodi vengono al pettine e
ciascuno deve provarsi a dialogare con gli altri (cercando – e questo è il
primo paradosso – di accettare l’assurdità di un possibile dialogo
chiarificatore con chi gli sia vicino!): in quei frangenti, le figure del
teatro comico rossiniano sbandano, naufragano, collassano su loro stesse, come
in una sorta di definitivo, colossale Big Crunch che tutto
annulla confonde rimescola sovverte. Sicché ciascuno fraintende l’altro; e stupisce,
si disorienta, balbetta, inciampa. Anche la lingua subisce l’onda acuta dello
stravolgimento e della folle dilatazione: così, ad esempio, si va dalle
infantili e ossessive onomatopee del finale dell’Atto primo dell’Italiana
in Algeri (“Din din”, “Crà crà”, “Bum bum”) al martellante,
percussivo delirio dell’ ”orrida fucina” del finale dell’Atto primo del Barbiere
di Siviglia; per non parlare del perfetto e generale impazzimento ch’è
generato allorquando s’incontrano tutti i personaggi del Signor
Bruschino (e perfino quando, in quest’ultima farsa, le cose si sistemano – per modo di dire! – la lingua e la musica s’inceppano
di nuovo nella frammentazione distruttiva della logica comunicativa: «Padre
mio, padre mio, mio mio, mio mio, mio mio… son pentito, tito tito, tito tito,
tito tito… Padre mio sono pentito; tito tito, tito tito…». Un disco rotto. Quel
disco è la ragione). Din din, Crà crà, Bum bum. Gli uomini, allora, si fanno
automi: vengono meccanizzati. E non esiste effetto comico più grande (ce lo ha
ricordato Bergson) del “meccanizzare” ciò che, pur vivo, piomba nell’inorganico,
affondando nella pura idiozia.
Ascoltiamo,
per esempio, la scena ottava del secondo atto de La Cenerentola. Angelina
scopre che lo scudiero è, in verità, il Principe; poco prima, Don Magnifico ha
capito che il Principe (da lui coperto di continui salamelecchi) altri non è
che un modestissimo cameriere; e all’inizio dell’opera, il saggio Alidoro,
consigliere del Principe, si presenta sotto le povere spoglie di un mendicante.
Ma quante maschere ha il mondo? Chi si traveste da chi? Siamo davvero sicuri di
sapere chi sia la persona con la quale stiamo parlando, proprio adesso? Chi
finge, dunque, di essere? Chi finge di non essere? Non lo sapremo. Non lo sa,
forse, nemmeno lei. Ed ecco, intanto: la trama s’ingolfa; la narrazione
precipita e s’ingarbuglia; le parole si aggrovigliano sull’insistenza grottesca
delle allitterazioni (“gruppo”, “sgruppa”, “raggruppa”, “sviluppa”, “inviluppa”…).
Ma in tutto questo trambusto, la musica di Rossini fila con incantevole e
supremo spirito aristocratico, osservando di lontano (e senza mai perdere la
verticale sua misura), e con bimbesca e un po’ cinica soddisfazione, la
confusione mentale, lo sconquasso linguistico, il rimbambimento sconclusionato
che affliggono e sommergono tutti gli astanti. Un gioioso tripudio della
follia, testimoniato anche dal gran numero di fioriture e di agilità nelle
quali s’immergono, ormai quasi del tutto private del loro nome, della loro
identità, le voci del Sestetto indiavolato.
I
personaggi non vogliono più, dunque, essere “io”. Ciascuno di loro obietta a sé
stesso il fatto di essere “soggetto”. E si fa automa. Perciò non dice più
nulla; si lascia dire. E ogni figura non rappresenta più nulla: nemmeno sé
stessa. E quella ridda di suoni è un bagliore d’innocenza, di lietissima ignoranza
assoluta: nel loro volontario uscir via dalla scena della rappresentazione, i
personaggi viaggiano altrove, proiettati da un suono pretestuale, asintattico,
distruttivo (e anche, diresti, auto-distruttivo); e ciò per sottrarsi,
felicemente, al tragico finito dell’io e alla sofferenza del tempo storico. Ed
ecco: la musica diventa l’immagine stessa della felicità che ignora il divenire
del tempo, perché essa si pone finalmente contro il tempo e contro la natura (e
contro, soprattutto, l’essere per la morte della vita stessa). Un maestro come Schopenhauer
ha osservato: «Tramite il tempo, tutto ciò che abbiamo tra le mani diventa
nulla – perde ogni valore». La vera vita eterna sta nell’arte.