di Sebastiano Aglieco
Ascoltare
la musica di Puccini, diceva Riccardo Chailly in un’intervista, può costituire
un’esperienza traumatica, capace di toccare le corde più profonde della propria
emotività.
Personalmente
ne ho fatto esperienza più di una volta e, col tempo, con il morbidirsi delle
strutture razionali, evito di ascoltare certe pagine, per esempio il finale
della Fanciulla del West.
Madama
Butterfly è l’opera più complessa di Puccini, quella in cui il compositore
si addentra nella psicologia femminile raggiungendo profondità mai toccare
veramente dalla sua musica. Tuttavia non si ascolta quest’opera in uno stato
totalmente disarmato, disponibili a entrare nella sfera dell’emozione
incontrollata; questo perché Puccini ci coinvolge nella descrizione di un sopruso,
di una fragilità al femminile totale, in balìa dell’inganno degli altri -
cultura, strutture sociali, il maschio; persino della stessa illusione di
redenzione attraverso l’amore -.
Ciò
che scatta nell’ascoltatore, allora, è un sentimento di pietà e di rabbia - nettissimo
il contrasto tra Butterfly, profondamente e sinceramente innamorata, l’inganno
di Pinkerton e la convenienza dei parenti -.
Se si
ascolta bene, il finale è già indicato nelle prime battute dell’apparizione di
Butterfly: alla lancinante dolcezza che accompagna il suo ingresso, fanno da
contrasto le parole di Pinkerton, convinto che si sposerà veramente in America,
e che quello è solo un gioco, uno sfizio erotico. Per non dire poi del
risuonare del tema del destino, lo stesso che ha segnato le sorti del padre di Cho
Cho-san, suicidatosi come farà la ragazza, con lo stesso pugnale e accompagnata
dalla stessa musica, in forma rituale, nella scena finale. Sappiamo già,
presagiamo, a differenza della fanciulla, caparbiamente chiusa nella sua
illusione.
All’inganno
irresponsabile e adolescenziale di Pinkerton, all’ipocrisia dei parenti
interessati solo ai soldi, si contrappone la pietà di Suzuki e del console
Sharpless, figura bellissima di uomo navigato, capace di comprendere come
funzionino le faccende dell’affettività.
Ma la
cosa straordinaria di quest’opera è anche il connubio che alla fine si viene a
creare tra la sconfitta Butterfly e la nuova moglie di Pinkerton, Kate, la
quale riconosce di essere l’innocente oggetto del dolore della ragazza. È la
dichiarazione di una condizione femminile completamente assoggettata alla
superficialità del maschio, cosicché Pinkerton assurge a figura veramente
odiosa nell’opera di Puccini, incapace, fine alla fine, di un gesto di
responsabilità verso la fanciulla, se non il rimorso che lo prende quando
improvvisamente intuisce la scelta tragica di Butterfly - forse un’eco delle
vicende biografiche di Puccini -.
Ascoltando
la versione di Chailly alla Scala, una versione che non coincide del tutto con
quella canonica a cui siamo abituati, soprattutto nel finale, la soppressione
dell’aria di Pinkerton, “Addio fiorito asil”, aggiunta da Puccini solo
successivamente per ammorbidire l’antipatia che si prova verso questo
personaggio, in realtà ben ne sottolinea l’assoluta irresponsabilità, la sua
felloneria da imberbe contrapposta alle sincere lacrime del console.
Opera,
dicevo, in cui la pietà rimane sottopelle, fortissima, - forse il nostro canto
non dichiarato è il coro a bocca chiusa, senza parole -.
Pietà
frenata da un desiderio di giustizia che si tramuta in rancore, lasciandoci
attoniti sul ciglio di un destino che si è già proclamato, tragicamente, fin da
subito. Ma forse il fatalismo di Puccini è solo realismo.