di Mario Fresa
Nel Parsifal si concentrano e si mescolano molte presenze e
risonanze e impressioni filosofiche e religiose di origine composita; tra
queste, in particolare, si potranno riconoscere: lo spirito dell’induismo,
filtrato per il tramite della lezione schopenhaueriana; influenze e suggestioni
dei precetti vedici; ascendenze degli insegnamenti del Buddhismo del Grande
Veicolo; influssi non meno forti delle dottrine della scuola dei Mādhyamika,
fondata da Nāgārjuna; condizionamenti, echi e seduzioni, infine,
provenienti dallo stesso cristianesimo: ma dico un cristianesimo di derivazione
luterana e soprattutto càtara, e dunque eterodosso, scismatico, disubbidiente;
e, perciò, non cattolico (a dispetto della visione
semplificante e personalistica data da Friedrich Nietzsche).
Ma il Parsifal è anche un’opera
profondamente pagana. Giacché l’unica, autentica Divinità ch’è sempre — con la
sua perenne, minacciosa potenza —presente nella poesia e nella musica di
Richard Wagner è Eros: una estrema, vigorosa divinità (cui
soggiacciono tutti gli esseri viventi; e perfino tutti gli Dèi!), sorretta
dallo spirito della più forte e implacabile energia che mai si possa
immaginare; divinità, come sappiamo, sempre osteggiata, combattuta, mortificata
dalle autorità grevi e repressive delle tre principali religioni monoteistiche.
Ma si dirà: c’è il Gral, (sì, scritto così, con una sola
«a»), ch’è un oggetto legato, secondo una tradizione spesso unilaterale e
semplicistica, alla figura di Cristo. Eppure, non tutti sono d’accordo su ciò;
e, anzi, qualche studioso (Julius Pokorny, 1912) reputa che gli antichi riti
legati a questo misterioso oggetto siano stati, forse, di natura del
tutto non cristiana, perché riferibili al culto
del disco lunare, già sacro agli antichi Celti. Una presenza – quella del
potente archetipo sacro della luna - ch’è rintracciabile, in modo diretto o
indiretto, nella stessa leggenda parsifaliana, per non pochi motivi. Qualche
esempio? Almeno uno: la bianca, immacolata colomba («weisse Taube») che
discende dalla cupola della sala del Gral e si libra sul capo di Parsifal (sto
descrivendo l’ultima scena dell’opera wagneriana) rappresenta, certo, per i
cristiani, l’immagine dello Spirito Santo; ma, in una prospettiva più aperta e
più libera (non conduce sempre a molte, impensabili strade, un’opera d’arte?),
e ricordandoci della immanente e inestirpabile presenza di Eros nell’intero
tessuto etico, teorico, artistico di Wagner, si dovrà pure ricordare che la
colomba era, presso gli antichi, l’animale totemico di Artemide, dea protettrice
del Femminile e della fertilità; la quale Artemide (Artames, o Losna, per gli
Etruschi), era pure, come ben sappiamo, dea della luna (e qui ritorna il
rinnovato collegamento tra la figura sacra del disco lunare e i riti del Gral).
Poi, come ha intuito Alessandro Serpieri, la stessa
figura di Amfortas, il “Re pescatore”, non dev’essere, per forza, intesa
affatto come cristiana; ché possiamo collegarla a quegli antichi
riti precristiani della vegetazione, ch’erano un «simbolo di natura
riproduttiva sacrificato – sotterrato, affogato – per essere poi fatto
risorgere simbolicamente – dissotterrato, ripescato – dalle acque, come pegno
della vita sulla terra». Ed ecco: in questo modo, il re peccatore si
trasforma in re pescatore: dunque, egli pesca (o meglio, ripesca)
sé stesso, il suo spirito: rinascendo, dimenticando sé stesso, e risorgendo
come altro da sé dalle acque dell’errore; e liberandosi,
finalmente, della spinta cattiva della volontà e del desiderio, radice di ogni
sofferenza e di ogni delusione.
***
Artemide e la colomba, il re pescatore e le rinascite
spirituali; e poi l’immagine lunare e la metempsicosi karmica… Come non pensare
agli stessi 28 cicli lunari interpretati da William Butler Yeats
come altrettante rinascite o reincarnazioni? E come non pensare agli studi
dedicati da Mircea Eliade alla Luna e al sacro simbolismo del suo divenire,
legato, appunto, al ciclo dell’eterno nascere, morire e rinascere di tutti gli
elementi della Natura?
Dobbiamo, allora, considerare il Parsifal come
un dramma che è sì religioso, ma ben antidogmatico e solo in parte cristiano
(perché contrario, soprattutto, all’oppressivo teismo
giudaico-veterotestamentario)? Un dramma misterico e provocatorio, dunque, di origine pagana?
Potremmo rispondere di sì. Il Parsifal è anche un
grande poema pagano; e qualche altro esempio apporterà, crediamo, un ulteriore
e utile lumeggiamento. Si pensi alla cerimonia del Venerdì Santo: essa potrebbe
essere vista anchecome un autentico inno ad Afrodite (e, dunque,
come un omaggio rituale alla potenza di Eros); ché il venerdì è, appunto, come
sappiamo, il giorno di Venere; e in lingua tedesca esso è chiamato
Freitag: cioè il giorno di Freyja, dea norrenica della Bellezza e dell’Eros. E
poi, si aggiunga un’altra osservazione che potrà meglio chiarire la posizione
religiosa dissidente e scismatica dell’opera: si noti che la città di Monségur
(“Montsalvat” nella leggenda parsifaliana) era, nell’antichità, un luogo sacro
alla dea celtico-iberica Bellisse, identificabile con Astarte (cioè a dire
Artemide); e il simbolo di Bellisse non era, appunto, una colomba?... E si
potrà mai dimenticare che Monségur fu l’ultima fortezza dei Catari, luogo in
cui essi furono trucidati, senza alcuna pietà, dai crociati cristiani? Perché
(lo abbiamo già notato), il Parsifal è, senza dubbio, anche un’opera
dalle radici catare; e gioverà, di certo, mettere in luce quanto sia stato
importante, per il catarismo, il concetto di auto-purificazione raggiunto per
il tramite di una continua, ciclica reincarnazione (tema parsifaliano di
prim’ordine!). John Frederick Rowbotham afferma: «I Catari credevano che
l’anima fosse costretta a migrare di corpo in corpo, fino a quando non venisse
a incarnarsi in un membro della setta… […] Secondo alcuni, Paolo era passato
attraverso tredici corpi e attraverso trentadue corpi secondo altri, prima di
raggiungere la grazia di Dio». Ma possiamo rilevare altri motivi di forte
collegamento, più sottili e secreti, fra l’ “eretico” catarismo e la visione
(altrettanto “eretica”!) dell’arte wagneriana; ché il profondo e lacerante
dualismo che attraversa ogni poema del Compositore (desiderio/liberazione;
attaccamento/fuga; cupidigia/purificazione; morte/rinascita) è ben sintetizzato
dalla teoria catara della differenza e, dunque, del combattimento che sempre si
gioca tra l’anima e lo spirito; giacché i Catari
intendevano l’anima come luogo delle passioni e del desiderio
egoico e lo spirito come essenza e significazione
dell’autentica scintilla divina, priva affatto di volontà e di cupidigia e
di pesanteur (una scintilla ch’è raggiungibile, però, dopo la
“morte” dell’anima; cioè, dopo la liberazione del proprio io, dei propri
desideri, della propria volontà; e d’altronde, grandi teologi eterodossi
come Meister Eckhart, l’Anonimo Francofortese, Juan de la Cruz, Angelus
Silesius non avrebbero sostenuto, in futuro, teorie assai simili a queste
straordinarie intuizioni càtare?).
*****
Resta il problema misterioso del Gral. Dovremmo
chiederci, a questo punto: che cos’è il Gral? Il silenzio è
l’unica, possibile risposta a una simile domanda. L’origine della parola è
stata fatta risalire a varie fonti etimologiche più o meno associate a oggetti
di natura cristianeggiante (“gradalis”= coppa, calice della cosiddetta Ultima
cena; o “Sangréal”= sangue reale di Gesù). Ma, per quanto ci riguarda, noi non
possiamo (e non vogliamo) escludere che la parola Gral non sia collegabile, per
intima natura e per sottile, comune germinazione, con l’aggettivo altotedesco
grâ (e graw) che indica l’ambigua immagine di un colore grigio e bivalente,
sospeso tra la chiarezza e il buio; e immerso tutto nel mistero di una soffusa
luminescenza. Una paroletta, grâ, che forse è pure legata a successive
filiazioni —dirette e indirette — come, ad esempio, il verbo graben (scavare) o
come il sostantivo Grabe (sepolcro).
Si dovrà, dunque, notare che certi specifici elementi
(l’oscurità e l’inviolabilità; la segretezza e la profondità; il buio e
l’inaccessibilità) congiurano e convivono, inestricabilmente, nella probabile
ragna etimologica che diede vita, un giorno lontano, al nome di
quell’inesplicabile oggetto (una coppa? Un vaso? Una pietra preziosa?) che deve
rimanere, appunto, sia per l’agnostico sia per l’uomo religioso, introvabile e inconoscibile,
perché del tutto sprofondato, sin dalle origini, in una estrema, misterica
luccicanza sempre notturna e fuggente, remota e lunare.
Ma il Gral, si obietterà, è sempre, e quasi senza dubbio,
collegato all’universo cristiano (cattolico, cataro, albigese, eccetera) e non
al mondo pagano o vedico o buddhistico.
Ammesso ciò (ma con molte riserve…), dobbiamo, a questo
punto, chiederci: ma quale Cristo aveva in mente Wagner?
Egli ammetteva, forse, un Cristo dalla fisionomia buddhica:
liberato, cioè, dell’ingombrante moralismo e del risentimento vendicativo
e schiavistico (giusta la perfida, ma in fondo esatta
intuizione nicciana) della religione giudaica. A questo proposito, si legga Schopenhauer:
«L’immensa assurdità del dogma cristiano svanisce se si elimina alla radice il
Vecchio Testamento con tutto il suo contenuto (teismo e ottimismo) e si lascia
sussistere solo il Nuovo, a eccezione di quelle parti in cui esso conferma il
Vecchio. Cristo è dunque un Buddha che
insegna la redenzione dal mondo tramite la negazione di sé. L’assurdità del
dogma cristiano nasce esclusivamente dalla contraddizione fra Vecchio e Nuovo
Testamento, che derivano da due religioni originarie contrapposte».
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Le origini buddhiste (e in particolare nāgārjunane)
e il fondamento vedico del Parsifal sono presto
dimostrati. Wagner abbozzò, per molti anni, un poema da cui sarebbe, poi,
scaturito il grande affresco parsifaliano. Il titolo di quel poema era Die
Sieger (I Vincitori; o anche, meglio: i Vittoriosi). Eccone la
trama: Prakriti, una ragazza appartenente alla casta inferiore indù ‘Chandala’,
ama il bellissimo Ananda, il discepolo prediletto di Buddha. Questi rivela a
Prakriti il voto di castità di Ananda. E le chiede: sei tu disposta ad
accettarlo? La fanciulla è, in un primo momento, indecisa e spaventata. Riceve,
poi, da Buddha la visione delle sue precedenti esistenze; e inizia, allora, a
comprendere il suo Karma: si è reincarnata in questa vita per soffrire le pene
d’amore, in modo da accettare la rinuncia di Ananda; così che potrà, in futuro,
essere essere chiamata eletta tra gli eletti. Prakriti accetta; Ananda accoglie
il suo amore.
Chi sono, dunque, i Sieger, i Vincitori, i
Vittoriosi? Essi sono le Creature del Risveglio: coloro che, finalmente còlti
dalla Illuminazione, hanno raggiunto la percezione della vacuità (Śūnyatā)
di tutto ciò che esiste. Essi hanno vinto sé stessi: le loro passioni, i loro
desideri, il loro stesso io. La suprema consapevolezza di ciò che noi definiamo
realtà, cioè la gnosi della sua infinita vacuità, è chiamata,
infatti, da Nagarjuna, la «Madre dei Vittoriosi»; e l’altissima perfezione di
questa finale conoscenza (di tale perfetta Vittoria) è riservata al
Bodhisattva, il futuro Svegliato, che completerà il percorso della
propria Illuminazione praticando le virtù del sentiero di Brahma:
Amichevolezza, Compassione, Gioia altruistica ed Equanimità. Non sembra di
riveder con la mente i medesimi percorsi compiuti da Lohengrin, da Tannhäuser,
dallo stesso Parsifal, redento e redentore, liberato e liberatore della
sofferenza propria e altrui?
Non sarà difficile, ora, riconoscere nell’opera I
Vittoriosi un’importante radice che culminerà nella fruttificazione
del Parsifal; e come non vedere nelle immagini solo abbozzate di
Prakriti e di Ananda la futura germinazione dei personaggi di Kundry e di
Parsifal?
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Stiamo dimenticando il Wagner poeta? No. Si
dica subito, invece, che anche la lingua della poesia
wagneriana ci mostra segreti sentieri di illuminazione e di rivelazione. Essa è
fondata, come sappiamo, sulla bellezza ipnotica dello Stabreim, la rima
allitterattiva germanica (minimo esempio, rintracciabile nei versi di Kundry
riportati qui sotto, è il meraviglioso: Lallen lacht); ma tale rima
non è, certo, un segno di edonistica belluria, né si pone, tantomeno, come
vanitosa impostura di stile; ché l’intrecciarsi e il fondersi concettuale,
fonico, visivo delle rime allitterative assumono, anzi, il cómpito di ricordare
a tutti noi che gli elementi fenomenici della cosiddetta realtà entro la quale
siamo immersi sono, tra di loro, sempre legati, interconnessi e
stretti; come se insieme viaggiassero sulla strada di un unico destino.
Sì: tutte le cose non sono che una. Giacché
ogni forma vivente o pensante non è altro che una parte dell’anima universale;
una parte che nasce e fruttifica e poi muore; e che infine, tornando al Tutto,
poi rinasce e risplende in quelle profonde correlazioni che uniscono e legano e
con-fondono le apparizioni delle cose del mondo.
Tutte le cose non sono che una. Il poeta e monaco
buddhista Thích Nhất Hạnh ha scritto: «Guardando questa pagina, ci si accorge
subito che dentro c’è una nuvola; senza la nuvola, non c’è pioggia; senza
pioggia, gli alberi non crescono; e senza alberi, non possiamo fare la carta.
[…] Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la
pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il
calore. Ogni cosa co-esiste in questo foglio. ‘Essere’ è in realtà
‘inter-essere’».
Il mondo, perciò, non può che essere inteso «come una
complessa e indivisibile totalità» (Charles Baudelaire).
Ma l’unirsi, il con-fondersi, l’intrecciarsi e
l’inter-essere dei suoni delle forme delle immagini dei corpi sono pure legati,
però, di certo, a un altro aspetto, più mobile e profondo, più misterioso e
magico: la reincarnazione e il ciclo delle rinascite;
sono legati, cioè, al drammatico avvicendarsi delle cause e degli effetti che
concorrono alla creazione del nostro Karma: un tumultuoso accavallarsi di
eventi che genera, senza sosta, continue, e inevitabili, conseguenze; e che,
infine, costringe e blocca ogni singola nostra azione entro le spire di quella
grande Ruota-prigione ch’è il Saṃsāra.
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Qui, nella grande Aria di Kundry (ma il termine aria non
mi piace, perché sa troppo di teatro d’opera “canonico”) parla non una donna,
ma la Donna: e, come sempre nella visione wagneriana, è proprio una
donna, anzi, appunto, la Donna, a permettere a un uomo – qui,
in particolare, al Puro-Folle, Parsifal - l’autentico Risveglio, la Liberazione
e la conoscenza del Reale (la Scrittura induista indica tale risveglio-affrancamento
con il termine Mokṣa). Kundry (l’antica Prakriti?) ha vissuto molte vite
precedenti. Qui racconta a Parsifal (l’antico Ananda?) di averlo visto,
bambino, vicino a sua madre. In quale vita? In quante vite fa? E in quale delle
vite di Parsifal? Kundry è la peccatrice che ha condotto Amfortas alla
sofferenza di subire l’atroce ferita della Lancia; ma essa è anche colei che
offrirà a Parsifal la possibilità di una sua redenzione-rivelazione: già
salvata e redenta (e vicina, dunque, a diventare Vincitrice di
sé stessa), Kundry sarà una redentrice; una sorte miracolosa, quella dellaredenzione
redentrice (magica? cristiana? O più semplicemente artistica,
visto che, forse, la morte dell’anima, e dunque il ricupero dello
Spirito, è davvero possibile solo per il tramite dell’Arte?)
che riguarderà infine lo stesso Parsifal, salvatore e salvato (da
sé stesso, dagli altri, dal reale, dall’ego, dal desiderio, dalla vita) e
consegnato alla gioia indicibile e incomunicabile del Nulla.
Ma si torni ancora, per un attimo, prima di chiudere,
sulla straordinaria figura della Donna nei poemi musicali wagneriani.
Elsa, Kundry, Senta,
Elisabeth, Isolde.
Incarnazioni dell’Eros liberatore e trasfigurante, grazie
al quale si supera il limite angusto della differenza e del dualismo e si
perviene (o si ritorna) alla divina incoscienza del Tutto originario.
Anacleto Verrecchia, illuminato schopenhaueriano e
wagneriano, ha scritto: «Dio, se c'è, è sicuramente una donna».
Come potremmo dargli torto?
Richard Wagner, Parsifal (1882).
Atto secondo, vv.
718-753.
Poesia di Richard
Wagner.
Ich sah das Kind am
seiner Mutter Brust,
sein erstes Lallen
lacht mir noch im Ohr;
das Leid im Herzen,
wie lachte da auch
Herzeleide,
als ihren Schmerzen
zujauchzte ihrer
Augen Weide!
Gebettet sanft auf
wiechen Moosen,
den hold geschläfert
sie mit Kosen,
dem, bang in Sorgen,
den Schlummer
bewach't der Mutter Sehnen,
den weckt' am Morgen
der hiesse Tau der Muttertränen.
Nur Weinen war sie,
Schmerzgebaren,
um deines Vaters
Lieb' und Tod.
Vor gleicher Not dich
zu bewahren,
galt ihr als höchster
Pflicht Gebot.
Den Waffen fern, der
Maenner Kampf und Waeren,
wollte sie still dich
bergen und behüten.
Bur Sorgen war sie,
ach! Und Bangen;
nie sollte Kunde zu
dir hergelangen.
Hörst du nicht noch
ihrer Klage Ruf,
wann spät und fern du
geweilt?
Hei! Was ihr das Lust
und Lachen schuf,
wann sie suchend dann
dich ereilt;
wann dann ihr Arm
dich wütend umschlang,
ward dir es wohl gar
beim Küssen bang?
Doch ihr Wehe du
night vernahmst,
nicht ihrer Schmerzen
Toben,
als endlich du nicht
wiederkamst
und deine Spur
verstoben!
Sie harrte Nächt' und
Tage,
bis ihr verstummt'
die Klage,
der Gram ihr zehrte
den Schmerz,
um stillen Tod sie
warb;
ihr brach das Leid
das Herz,
und - Herzeleide - starb.
**************
Vidi il bimbo al seno della madre,
il suo primo balbettio ancor ride al mio orecchio:
con la pena in cuore,
come rideva allora anche Herzeleide
quando la delizia dei suoi occhi
esultava ai suoi dolori!
Teneramente coricato su soffici muschi,
lo addormentava con soavi carezze:
trepida nell’affanno,
vegliava sul suo sonno la materna brama,
l’ardente rugiada delle lacrime materne
lo risvegliava al mattino.
Non era che pianto, e atti di dolore
Per l’amore e la morte di tuo padre:
preservarti da uguale sorte,
era l’imperativo del più alto dovere.
Lontano da armi, lotte e furie guerriere,
ella voleva in segreto nasconderti e custodirti.
Non era che affanno, ahimè!, e inquietudine:
mai te ne doveva giungere notizia.
Non senti ancora il grido del suo lamento,
quando lontano ti attardavi?
Ah! Che gioia, che risa,
quando, cercandoti, poi ti ritrova;
quando il suo braccio, violento, t’allacciava,
quasi ti spaventavi ai quei baci?
Ma tu non intendevi il suo tormento,
né la furia dei suoi dolori
quando alla fine non ritornasti più,
e si persero le tue tracce.
Attese notti e giorni,
finché il suo lamento s’ammutì,
il cordoglio consumò il suo dolore,
ella cercò in segreto la morte:
il dolore le spezzò il cuore,
e — Herzeleide — morì.
(Traduzione di Olimpo Cescatti)
Nell’esecuzione: Régine Crespin, soprano; Orchestre
National de la Radiodiffusion Française. Direttore, Georges Prêtre.
Registrazione del 1961.