Monteverdiana


 di Mario Fresa


Monteverdi esordisce come madrigalista nel 1587, pubblicando il suo Primo Libro in un momento in cui il gusto musicale sembra mutare strada e comincia a infiammarsi per le più mosse, vivaci novità che poteva ben offrire all’ascolto (e all’occhio) il genere rappresentativo, prossimo a quella fortunata metamorfosi che l’avrebbe trasformato, di lì a poco, in melodramma vero e proprio.

V’è da dire che, toccato il punto più alto della sua produzione, il madrigale sembrava avere inaridita l’immediata naturalezza di un tempo, perché da qualche anno già iniziava a imbrigliarsi in certe stanche ripetizioni di topoi, di immagini e di temi resi anonimi, scolastici e usurati da un crescente e ingessato convenzionalismo. Si leggano, a proposito, le sdegnate parole che Torquato Tasso aveva pronunziate nel Dialogo La cavalletta, ovvero della poesia toscana del 1584: «La musica del madrigale degenerando… è divenuta molle ed effeminata; e pregheremo lo Striggio e Jacches e ‘l Lucciasco ed alcun altro maestro di musica eccellente, che voglia richiamarla a quella gravità, de la quale traviando è spesso traboccata in parte, di cui è più bello di tacere che ‘l ragionare». Non sapeva, il gran poeta, che un musicista ben poco pieghevole ai fragili e fumosi effetti della scrittura «molle ed effemminata» – Claudio Monteverdi, appunto tre anni dopo una così dura sentenza, avrebbe rinnovato – e, diremmo, rafforzato di una luce sconosciuta – proprio il genere del madrigale, innervandolo di un vigore espressivo e di un senso del vero così lontano dall’innocua languidezza della “maniera” da rendere il canto autentico, diretto e commovente quanto lo stesso parlare.

 

Impressionanti, perché vivacemente plastici e vibranti, sono gli “effetti” drammatici che nei suoi madrigali Monteverdi crea, a volta a volta, per lumeggiare una specifica frase o perfino una singola parola. In quei momenti, grazie alle estreme accensioni quasi tangibili che essa emana, la sua musica sembra, davvero, pareggiare l’esplodere improvviso di una effrazione; e questo suo inaudito (letteralmente!), nervoso pittoricismo apprende sempre più a esprimersi con un impiego di invenzioni sorprendenti e imprevedute: si noti, minimo esempio, l’irruzione di certi salti ampi e inattesi - l’intervallo di sesta discendente con cui s’iniziano «O com’è gran martire» (Terzo Libro), «Mori meschina» (Quarto Libro), «O Mirtillo» (Quinto Libro); o si ricordi, ancora, l’audacissima comparsa, alla frase «di questa morte che par vita» (nel Quarto Libro), nella parte del basso, di un inquietante salto di settima discendente (sulla parola «morte») seguìto da un salto di settima ascendente sulla parola «vita»: un luminoso squarcio che all’improvviso si dischiude tra le pieghe dell’abisso.

 

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Tali ardite soluzioni furono, come è noto, criticate e osteggiate dal canonico Giovanni Maria Artusi, il quale tonava contro «le imperfettioni della moderna musica» (sottotitolo di un suo famoso pamphlet) e, soprattutto, contro lo stesso Monteverdi, reo di aver procurato violenza, per amor dell’eccesso, ai «precetti delle buone regole lasciate da Theorici ed osservati da tutti li Pratici».

Illuminante la risposta, da parte del Cremonese, alle accuse artusiane: nella lettera di prefazione al Quinto Libro dei madrigali egli annunzia una difesa (o un “contrattacco”?) che avrebbe, con orgoglio, portato «in fronte il nome di Seconda pratica, o vero Perfettione della moderna musica». Per il tramite di suo fratello Giulio Cesare (curatore degli Scherzi musicali del 1607), Monteverdi firma, poi, una coraggiosa e originale estetica musicale, fondata sulla contrapposizione delle due “pratiche”, così ben chiaramente esposta: «La prima pratica, cioè l’armonia non comandata, ma comandante et non serva ma signora del oratione… seguitata poi et ampliata da Occheghem, Iosquin de Près, Pietro della Rue, Mouton, Crequillon, Gombert et altri di quei tempi, perfetionata ultimamente da messer Adriano con l’atto prattico et dal Eccellentissimo Zarlino con regole giudiciosissime..»; quindi la seconda pratica, cioè la pratica moderna, chiede al contrario che l’oratione, (la parola, il verso) sia «già padrona dell’armonia et non serva», indicando come primo “seguace” della nuova pratica «il Divino Cipriano De Rore»; ma essa fu poi «seguitata et ampliata […] dal Igegneri, dal Marenzio… et parimente da Giacomo Peri, da Giulio Caccini et finalmente da tutti li spiriti più elevati…».

Dunque: v’è un’arte musicale assoluta, che mira a intendere la parola come medium, (come pre-testo), per l’edificazione di astratte costruzioni polifoniche, trasfiguranti la parola stessa (e questa prima “antica” pratica fu seguita e realizzata dai grandi maestri del Quattro-Cinquecento); e poi v’è un’arte musicale (la “seconda pratica”, promossa da Monteverdi) che trova nell’urgenza dell’espressione gestuale, fisicamente avvertibile del testo, la necessità di un rovesciamento del rapporto musica/parola, facendo diventare quest’ultima il centro di convergenza, il punto d’inizio e il fine stesso della composizione musicale.

 

La ricerca e la sperimentazione sono, in Monteverdi, continue e inarrestabili. Intanto, la preziosa adozione del basso continuo (già dal Quinto Libro, 1605), permette il “distacco” e, dunque, l’individuazione di una voce solista all’interno della compagine madrigalistica di struttura polifonica; sicché la stessa voce solista si appresta, in questo modo, a passare da semplice linea o parte musicale “senza nome” ad autentico “personaggio”, a ideale proiezione di un soggetto preciso, definito e “vivo”.

Il Settimo libro (1619) è una nuova sorpresa. Qui, il divario tra la voce-corpo che recita, declama, scolpisce i versi e la voce-suono della parallela “scena” musicale (che accompagna, ma che pure “amplifica” e riordina la parola) si fa sempre maggiore, sempre più avvertibile. Dunque: che cos’è il Settimo Libro? Teatro sonoro o musica “teatrale”? È, potremmo dire, la compiuta esposizione di un’idea grandiosa di sintesi, di concentrazione e di rivoluzione. Non a caso, esso è intitolato dall’autore Concerto, con chiarissimo intendimento del significato etimologico di quel termine (“gareggiamento”, “combattimento”); infatti, il Libro si presenta – appunto per mostrare il “guerreggiare” dialogico (e, perciò, il legame fortissimo!) tra musica e parole – come un’estrosa, eppure ragionata mescolanza di natura, potremmo dire, caleidoscopica. Si pensi al primo madrigale, Tempro la cetra, ove appunto il “temperamento” della cetra (cioè della stessa espressione musicale) è tradotta in brillanti variazioni sullo stesso basso, intercalate da un ritornello strumentale che sfocia, infine, in un ballo. Poi, sembra di assistere all’esplodere di un vero e proprio microuniverso musicale, finemente intarsiato con tredici duetti, quattro terzetti, due quartetti: uno straordinario, magico luogo narrativo dal respiro ovidiano, in cui tutte le possibili forme vocali e strumentali dialogano e s’intrecciano, si mutano e riappaiono, si ampliano e si trasformano senza fermarsi mai…

 

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La rincorsa dei “contrari”, cioè la “messa in scena” dell’anima presa dal vortice estremo delle passioni contrastanti, è il tema principale dell’Ottavo Libro (1638), composto vent’anni dopo il Settimo. E giacché «I contrari - è Monteverdi stesso a parlare – sono quelli che grandemente muovono l’animo nostro», il Cremonese affina ancor di più gli strumenti tecnici ed espressivi della su arte, utilizzando – per “rappresentare” lo stile concitato – il fascinoso effetto del tremolo sugli archi, come speculare allegoria sonora della convulsione nervosa o del tremore di un’anima catturata dall’agitazione. Monteverdi annota: «Mi posi con non poco studio et fatica per ritrovarlo, e, considerato nel tempo piricchio che è tempo veloce, nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo essere stato usato le saltazioni belliche, concitate, e nel tempo spondeo, tempo tardo, le contrarie, cominciai dunque la semibreve a concitare, la qual percossa una volta dal sono, proposi che fosse un tocco di tempo spondeo, la quale poscia ridotta  in sedici semicrome,  e ripercosse ad una per una, con agionzione di oratione contenente ira e sdegno udii, in questo poco esempio la similitudine del affetto che ricercavo, benché l’oratione non seguitasse co’ piedi la velocità del istromento».

 

Il rilievo sempre mosso, vivace, pulsante della parola coincide, ora, in maniera diretta, indivisibile, assoluta con la struttura musicale e, qui, in particolare, con la stessa natura del madrigale. Pare difficile, addirittura, intravedere in esso una chiara separazione tra la “visibile” concretezza della parola detta e l’astratta, volatile seduzione della parola suonata dal contrappunto musicale. Ciò è avvertibile, per esempio, nel madrigale Ardo, avvampo (dal Libro Ottavo, appunto), sensualmente affollato di suoni che investono l’orecchio con la pregnanza e l’incidenza di corpi sensibili e saettanti; e sono parole che, alimentate dalla forza centrifuga dell’elemento musicale, sembrano esplodere ed erompere, e anzi assumere vita, peso, colore. Sembrano, però: giacché la stessa atmosfera parodistica (dunque, non univoca, cioè non “reale”) della musica e del testo, galleggianti sopra un’ambigua e seriosa comicità, vuol ricordarci che il ”realismo” musicale è sempre utopico, raggiungibile sempre (e solo) per il tramite della miracolosa finzione dell’arte.

Il coronamento dell’Ottavo Libro, il Combattimento di Tancredi e Clorinda, su versi tassiani, mostra la definitiva epifania di questa fascinosa sospensione tra musica e teatro: è, questo, un momento di sintesi compiuta che sancisce l'ormai avvenuta, e irrinunciabile, separazione tra la “prima” e la “seconda” pratica. Una sospensione rivolta, da un lato, alla costruzione musicale pura, all’autonomo gesto sonoro, e, dall’altro, all’irrompere dei corpi, alla vivezza fisica dell’azione, tradotta non più nella custodia perfetta di un distanziato controllo delle forme, ma resa con l’imperiosa, dissonante, chiaroscurale urgenza della stessa vita.




Il Combattimento di Tancredi e Clorinda

 

Festival Liederiadi & Festival Amfiteatroff (19 luglio 2015)

 

Mirko Guadagnini - testo

Beatrice Binda - Clorinda

Giorgio Tiboni – Tancredi

Intende Voci Ensemble