Un’aria fuori dal mondo: Dormi, o fulmine di guerra dalla “Giuditta” di Alessandro Scarlatti



di Sebastiano Aglieco

L’opera barocca è uno scrigno infinito di arie che meriterebbero di essere conosciute fuori dalla cerchia degli specialisti e degli appassionati.
Sono arie di vario genere costruite per tipologia, il che ne garantisce una grande varietà.
Ascoltare i lavori dei maestri del primo barocco italiano, permette, poi, di seguire l’evoluzione del teatro d’opera, e non bisogna mai dimenticare che, ciò che ascoltiamo da Handel fino a Mozart quantomeno, è il frutto maturo scaturito da quella prima straordinaria stagione di musica e di cultura. 
L’aria che propongo, “Dormi, o fulmine di guerra”, non è propriamente l’aria di un’opera ma di un oratorio, genere musicale che non prevedeva la mise-en-scène  ma sicuramente imparentato col teatro d’opera per forza drammatica della struttura e e per gli splendori melodici.
È il momento in cui la Nutrice si mette a cantare per favorire il sonno di Oloferne, prima della sua decapitazione da parte di Giuditta.
Ciò che mi ha sempre colpito in quest’aria è un misto di situazioni psicologiche non espresse ma riassunte dalla musica, musica in stretto connubio con le parole:

Dormi, o fulmine di guerra.
Scorda l’ire, già provasti ch’a ferire
L’arco e il dardo d’un bel ciglio,
D’un bel guardo han vigor ch’i forti atterra.


Che cosa esprime questa melodia, dunque?:
l’inganno della donna, realizzato attraverso la malia delle note, tanto che si potrebbe parlare della nutrice come di una sorta di maga somministratrice di una pozione d’amore.
La donna, in effetti, invita l’innamorato Oloferme a desistere, infine, ricordandogli che l’amore è più forte della morte, a patto che ci si lasci andare totalmente scordando “l’ire”, “l’arco e il dardo d’un bel ciglio, d’un bel guardo”, costi quel che costi.
Ma è anche un canto che sembra una ninna nanna e non è un caso che sia pronunciato proprio dalla Nutrice – in questo senso Oloferme si fa bambino fidato nelle braccia della tata.
Ma come si fa a non avvertire anche commozione in questa musica, come se, senza dichiararlo, questa donna ingannatrice esprimesse una sorta di pensiero divergente, non coerente, certo, con gli intenti, ma con le prerogative dell’istinto materno.
Tutto è sospeso: è il tempo dell’attesa che prepara l’inganno, ma anche il tempo sospeso per sempre, del regredire verso il ventre materno.

Non finisce qui. Perché anche noi che stiamo ascoltando, diventiamo il bimbo che va cullato con la dolcezza delle madri; e siamo anche gli innamorati ingannati dalle parole dell’amore promesso.
Si ritorna, insomma, alla nozione di canto come seduzione e perdita, parola pronunciata senza parole, sospensione dai nefasti riti della violenza del mondo. Almeno per un attimo infinito...


Marco Lazzàra, contralto; Alessandro Stradella Consort. 
Direttore, Estevan Velardi.