di Sebastiano Aglieco
L’opera
barocca è uno scrigno infinito di arie che meriterebbero di essere conosciute
fuori dalla cerchia degli specialisti e degli appassionati.
Sono
arie di vario genere costruite per tipologia, il che ne garantisce una grande
varietà.
Ascoltare
i lavori dei maestri del primo barocco italiano, permette, poi, di seguire
l’evoluzione del teatro d’opera, e non bisogna mai dimenticare che, ciò che ascoltiamo
da Handel fino a Mozart quantomeno, è il frutto maturo scaturito da quella
prima straordinaria stagione di musica e di cultura.
L’aria
che propongo, “Dormi, o fulmine di guerra”, non è propriamente l’aria di
un’opera ma di un oratorio, genere musicale che non prevedeva la mise-en-scène ma sicuramente imparentato col teatro d’opera
per forza drammatica della struttura e e per gli splendori melodici.
È il
momento in cui la Nutrice si mette a cantare per favorire il sonno di Oloferne,
prima della sua decapitazione da parte di Giuditta.
Ciò
che mi ha sempre colpito in quest’aria è un misto di situazioni psicologiche
non espresse ma riassunte dalla musica, musica in stretto connubio con le
parole:
Dormi,
o fulmine di guerra.
Scorda
l’ire, già provasti ch’a ferire
L’arco
e il dardo d’un bel ciglio,
D’un
bel guardo han vigor ch’i forti atterra.
Che
cosa esprime questa melodia, dunque?:
l’inganno
della donna, realizzato attraverso la malia delle note, tanto che si potrebbe
parlare della nutrice come di una sorta di maga somministratrice di una pozione
d’amore.
La
donna, in effetti, invita l’innamorato Oloferme a desistere, infine,
ricordandogli che l’amore è più forte della morte, a patto che ci si lasci
andare totalmente scordando “l’ire”, “l’arco e il dardo d’un bel ciglio, d’un
bel guardo”, costi quel che costi.
Ma è
anche un canto che sembra una ninna nanna e non è un caso che sia pronunciato
proprio dalla Nutrice – in questo senso Oloferme si fa bambino fidato nelle
braccia della tata.
Ma
come si fa a non avvertire anche commozione in questa musica, come se, senza
dichiararlo, questa donna ingannatrice esprimesse una sorta di pensiero
divergente, non coerente, certo, con gli intenti, ma con le prerogative
dell’istinto materno.
Tutto
è sospeso: è il tempo dell’attesa che prepara l’inganno, ma anche il tempo
sospeso per sempre, del regredire verso il ventre materno.
Non
finisce qui. Perché anche noi che stiamo ascoltando, diventiamo il bimbo che va
cullato con la dolcezza delle madri; e siamo anche gli innamorati ingannati
dalle parole dell’amore promesso.
Si
ritorna, insomma, alla nozione di canto come seduzione e perdita, parola
pronunciata senza parole, sospensione dai nefasti riti della violenza del
mondo. Almeno per un attimo infinito...
Marco Lazzàra, contralto; Alessandro Stradella Consort.
Direttore, Estevan Velardi.