§ 1. Filologia dell’avvenire
La nascita della tragedia
dallo spirito della musica (1871) si
presenta ai suoi contemporanei come l’aprirsi, inaspettato e violento, di una
enorme, irreparabile breccia; riesce a scontentare e a scandalizzare quasi
tutti i coevi studiosi di filologia classica, di filosofia e di musica; è
accolta come un’opera di pura provocazione, come un irrispettoso e insensato divertissement
antiaccademico; stilisticamente, essa appare tanto astrusa e arzigogolata,
quanto impenetrabile e sfuggente.
Perché tanto
clamore? Intanto, la tensione disgregatrice, l’irrequietezza paradossale e
l’animosa iconoclastia del giovane filosofo ribadiscono, in questo geniale,
irrituale, sconvolgente pamplhet, due concetti-chiave già annunciati
negli scritti precedenti, qui ripresi con una più spiccata energia, e col
sostegno di una maggiore convinzione: essi sono, come spiega lo stesso
Nietzsche, «per prima cosa la comprensione del dionisiaco nei Greci:
esso ne dà una prima psicologia, vi vede l’unica radice dell’intera arte greca.
Poi la comprensione del socratismo: Socrate riconosciuto per la prima volta
come strumento della disgregazione greca, come tipico décadent. “Razionalità”
contro istinto».
È una visione
della grecità che vuole, innanzi tutto, confutare la classica identificazione
del mondo classico con l’armonia, l’equilibrio, la misura, la
compostezza; ma sono questi, in verità, - ci ricorda Nietzsche - aspetti e
caratteri fissati a posteriori dall’intermediazione culturale cristiana,
che testimonia un’immagine del mondo greco non più còlta nell’istante del suo
vero, autentico, selvaggio vitalismo, ma nella sua fase di decadenza e di stanchezza.
La visione tragica, violenta, insana e disarmonica dell’uomo greco è ben testimoniata dal detto di Sileno, la figura mitologica – metà uomo e metà animale – precettore di Dioniso: per l’uomo, il meglio sarebbe non nascere; e, una volta nati, si dovrebbe morir presto.
È un’immagine dura, terribile, che in un istante disfa
l’interpretazione classicistica, ottimistica, dei cultori della “bella” e
dell’”armoniosa” grecità (da Winkelmann a Schiller a Goethe); perché si deve
ricordare che il greco conobbe e sentì per intero, come ricorda Nietzsche, «i
terrori e le atrocità dell’esistenza», e l’arte fu vista come l’unico antidoto
per sopportare, mercé la sua splendida capacità di momentanea illusione, gli
orrori e le miserie della vita; e la stessa intuizione del mondo divino
deve essere intesa come fenomeno artistico .
Necessari sono,
perciò, i duplici, contrari e complementari aspetti dell’apollineo e del
dionisiaco.
Essi mostrano
all’uomo la strada misteriosa della liberazione e dell’eccitazione,
della stabilità e della precipitazione, della risalita e dello sprofondamento.
Gianni Vattimo
chiarisce: «il mondo degli dèi olimpici è il mondo prodotto dall’impulso
apollineo; l’esperienza del caos, del perdersi di ogni forma definita nel flusso
incessante della vita che è anche sempre morte, è invece quella che corrisponde
all’impulso dionisiaco; che è anch’esso un impulso, un Trieb: come l’apollineo
tende a produrre immagini definite, forme armoniose e stabili che rassicurino,
non è solo la sensibilità al caos dell’esistenza, ma è anche spinta a
immergersi in questo caos, sottraendosi al principium individuationis».
Ma questo mondo altro ch’è
rappresentato dalla dimensione divina - fonte di meravigliosa stupefazione e di
gioiosa salvezza per l’uomo – non appare, come nel pensiero di Schopenhauer (i
cui echi sono ancora ben avvertibili nella Nascita della tragedia) sotto
le vesti oppositive di un velo di Maya; esso è un mondo al quale è possibile
accedere ricuperando, in se stessi, la forza e la vitalità di una volontà di
tipo artistico: nel flusso estremo di tale volontà, devono congiurare
eternamente i due grandiosi impulsi (Triebe) del dionisiaco e
dell’apollineo, del sereno distanziamento e del selvaggio inabissamento nei più
profondi gorghi del gioco dell’esistenza.
§ 2.1 Le origini della tragedia
A proposito
della ricostruzione delle origini della tragedia greca, Nietzsche non si mostra
né innovatore né sovvertitore. Egli ricalca, in sostanza, teorie e concetti
accreditati da una lunga tradizione, che vedrebbe nel coro tragico l’elemento
dal quale sarebbero sorte l’idea fondante e la struttura stessa della tragedia;
un coro ch’è sempre guidato e sospinto dalla forza misteriosa dello sguardo
apollineo e dell’energia dionisiaca.
La tragedia
nasce dal coro dei Satiri, e cioè l’ambigua e mostruosa processione sacra nel
corso della quale i partecipanti al rito si trasformano in quelli che Nietzsche
definisce «finti esseri naturali».
La trasformazione
e l’identificazione col Satiro permettono allo spettatore rituale una
salvifica uscita da sé stesso che gli permette di contemplare,
nell’alterità febbrile di questo improvviso distacco dal proprio sé, lo
splendore e la terribilità del fenomeno drammatico originario.
Si tratta di un
mascheramento lacerante, che permette di vivere la gioia furiosa di una
precipitazione nel molteplice e nell’indistinto: lo spettatore perde sé stesso
e, tuttavia, si arricchisce; si cancella, destituendosi, ma, al tempo
stesso, dilata infinitamente il proprio essere: e diventa, perciò, nel
corso di tale estremo gioco di smarrimento e di amplificazione, uno e molteplice,
presente e assente, maschio e femmina; e, dunque, umano
e divino.
Lo stesso status sociale è abolito e
cancellato: quale rivoluzionaria forma di contestazione, dunque, era presente
nell’autentico spirito tragico dei Greci! Nietzsche spiega: «il coro
ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione
sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza
tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale. […] In questo
incantesimo, chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come Satiro, e come
Satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori
di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato. Con
questa nuova visione il dramma è completo».
§ 2. Diventare dio
L’uomo, dunque, indossa la maschera del dio. Ora il suo sguardo s’ingrandisce, si potenzia, e vede oltre l’umanamente visibile. Egli sente divinamente, guarda il dio con gli occhi di un dio.
Si vedrà bene quanto sia irreparabilmente e ferocemente anti-platonica e anti-cristiana questa inedita prospettiva del rito sacro legato al Coro dei Satiri.
Il Mondo delle
Idee, così lontano e altro dalla dimensione umana, è per la prima
volta attraversato con un eccitato e sovrabbondante vitalismo dallo spettatore
rituale: egli dimentica, adesso, lo scontro umiliante con la prepotente e
minacciosa presenza degli dèi; non soltanto non li teme più, ma
addirittura sente, parla, canta e danza come uno di loro.
Quale impudenza
per i platonici e per i cristiani! L’uomo greco, diventato lui stesso un dio,
non attende apocalittici giudizi, non desidera premi né ricompense, non è
terrorizzato da eterne punizioni: egli diventa padrone di sé stesso e
dell’intera esistenza perché – paradossalmente – si è liberato del
proprio piccolo io sociale, morale e psicologico.
Alla luce di
una tale sconvolgente forma di gioioso potenziamento del proprio istinto
vitale, si potrà ora ben comprendere quanto e perché Platone temesse
così tanto gli effetti dell’arte e della poesia.
Eppure,
nell’analizzare e nel lodare l’indicibile felicità donata all’uomo-dio che,
danzando come un Satiro, diventa egli stesso un Satiro, affrontando l’esistenza
al di là dell’umano, Nietzsche non fa che recitare un epicedio:
la tragedia attica è stata grande, infatti, perché ha permesso all’uomo di sopportare
l’esistenza in virtù della potente sovrabbondanza dell’istinto dionisiaco e
della distaccata forza luminescente dello sguardo apollineo, ma a un certo
punto è tramontata, operando un suicidio.
A causare ciò,
proponendo «una forma degenerata della tragedia» è stato, secondo il filosofo,
Euripide: egli è colpevole di aver trasformato il mito tragico «in un
susseguirsi di vicende razionalmente concatenate e comprensibili, di stampo
sostanzialmente realistico».
Iniziano a
prevalere, allora, sulla scena, tutti quegli elementi che faranno disparire, attenuandone
la grandiosa potenza, gli estremi istinti del dionisiaco e dell’apollineo: e
cioè lo psicologico, il razionalismo, il moralismo, il precettismo, la
sentenziosità: virtù (Nietzsche direbbe: false virtù) di natura ben
simili a quelle che il filosofo avrebbe poi riscontrato nel socratismo e
nello stesso cristianesimo.
§ 3. 1 Nietzsche filosofo della musica
Si dovrà ora ricordare che il fondamento e la radice dell’estasi e della disidentificazione, della stessa esaltazione dionisiaca e della miracolosa trasformazione nel dio devono essere individuati interamente nello spirito della musica, più che della parola.
Quest’ultima,
anche e soprattutto quando s’incarna nel linguaggio della poesia, non può che
essere prodotta e germinata dalla musica: quando Archiloco, il primo dei lirici
greci, manifesta alle figlie di Licambe il suo amore furioso e insieme il suo
disprezzo, non è la sua passione a danzarci davanti in orgiastica ebbrezza; vediamo
Dioniso e le Menadi, vediamo l’invasato, inebriato Archiloco sprofondato nel
sonno (il sonno come è descritto da Euripide nelle Baccanti, il sonno
sugli alti pascoli, nel sole del mezzogiorno): ed ecco che Apollo gli si
avvicina e lo tocca con l’alloro.
L’incantesimo
dionisiaco-musicale del dormiente sprizza ora intorno a sé, come faville
d’immagini, poesie liriche che nel loro più alto dispiegamento si chiamano
tragedie e ditirambi drammatici».
Il verso, dunque, scaturisce sempre dalla
musica; le stesse immagini sono formate, all’origine, dalla stupefacente gemmazione
di un suono primordiale.
Ma pure, non dobbiamo immaginare tutti questi
elementi – suono, testo, parola, musica, immagine – come separati o divisi:
essi dialogano, nella visione nicciana, percorrendo un’unica strada che ci
ricorda la complementarità e la profonda unione che sempre lega e stringe
l’ascolto e la visione, la realtà e l’immagine, i corpi e le sembianze: proprio
in tale direzione si stava, d’altronde, muovendo lo stesso Richard Wagner
quando intendeva dar vita a un’opera d’arte totale.
I riflessi e la
specularità, gli echi e i rimandi che s’intrecciano continuamente nel gioco del
dialogo che unisce la parola e la musica erano già stati magnificamente
descritti da Charles Baudelaire, anch’egli profondo conoscitore della musica wagneriana,
allorquando parlava di corrispondenze analogiche e sinestetiche:
«giacché sarebbe davvero sorprendente che il suono non potesse suggerire il
colore, che i colori non potessero dare l’idea di una melodia, e che il suono e
il colore fossero impropri a tradurre le idee; le cose infatti si sono sempre
espresse con analogia reciproca, dal giorno in cui Dio ha proclamato il mondo
come una complessa e indivisibile totalità».
§ 3. 2 Prima la musica, dunque, poi le
parole.
Lo stesso significato
di un testo, quando esso è applicato a una musica, può essere autenticamente
compreso nel suo senso più profondo non certo riflettendo sul suo specifico
contenuto verbale, ma abbandonandosi alla potenza e alla seduzione dell’evento
sonoro che lo sostiene; e ciò, ricorda il filosofo, costituisce «la norma
universale ed eternamente valida per la musica vocale di tutti i tempi, l’unica
norma conforme all’origine della poesia lirica».
La musica,
dunque, non può mai diventare mezzo. Essa deve superare l’ostacolo e il
peso della parola, strumento socratico per eccellenza, il cui fine è
quello di spiegare, e di ricondurre tutto al raziocinio e alla comprensione
logica.
La rinascita
della tragedia greca non poteva, perciò, avvenire sotto gli ingenui auspici di
quei teorici, letterati e musicisti che, dagli ultimi anni Settanta ai primi
anni Novanta del sedicesimo secolo, si riunirono nella casa del conte Giovanni
Bardi col proposito di rinnovare la musica indirizzandola con decisione verso lo
stile monodico (credendo, così, di interpretare in modo adeguato lo spirito del
rapporto che correva tra la parola e la musica nella cultura dell’antica
Grecia).
Il contrapporre
la monodia alla polifonia si fondava su di una precisa convinzione: la prima
era senza alcun dubbio ritenuta superiore alla seconda in quanto considerata
«naturale, chiara e unitaria, perché così amica della parola, così trasparente
e perfin commovente nel suo messaggio verbale»; e, dunque, la stessa musica
greca, che era «melodia pura», doveva essere considerata superiore alla musica
contemporanea, che contrappuntava le melodie, confondendo e maltrattando «i significati
dei loro testi» (P. Mioli).
L’opera lirica,
perciò, nasce da un equivoco: e cioè che la musica debba sostenere
e potenziare il significato espressivo della parola, mostrandosi ora,
agli occhi di Nietzsche, una «invenzione non musicale, in favore di spiriti non
musicali» (come duramente l’aveva giudicata lo stesso Schopenhauer).
Nietzsche
denuncia, dunque, tale equivoco estetico fondato sulla eccessiva importanza
assegnata allo stilo rappresentativo e al recitativo che ha
palesato la natura extra-artistica dell’opera lirica, favorendo e
suffragando sempre l’ottusa pretesa dell’ascoltatore di voler capire il messaggio
della musica attraverso la chiara comprensione della parola,
contraddicendo, così, i più autentici impulsi artistici.
Infatti,
«poiché non ha sentore della profondità dionisiaca della musica, l’uomo
artisticamente impotente trasforma il godimento musicale in retorica
intellettualistica di parole e di accenti della passione nello stilo rappresentativo,
lo trasforma nelle delizie delle arti del canto […] il presupposto dell’opera è
una falsa credenza sul processo artistico, cioè la credenza idillica che propriamente
ogni uomo in preda ai sentimenti sia artista.
Nel senso di
questa credenza, l’opera è l’espressione di una mondanità profana in arte che
detta le sue leggi con il sereno ottimismo dell’uomo teoretico».
Così, allora,
mostrando la sua dipendenza dalle maglie della parola e del suo significato,
e dunque del razionalismo socratico, la musica appare, nel teatro
d’opera, spogliata della sua autentica essenza, che consiste nell’essere «lo
specchio dionisiaco dell’universo»; e il dramma, allora, non potendo più
salvare «il soggetto col balsamo risanatore dell’illusione», si immiserisce e
isterilisce nella vaghezza di un gioco pervaso da «forme capricciose e facili»
; la musica, dunque, si riduce a imitare, «da schiava del fenomeno, la forma
dell’apparenza», promuovendo, infine, «un diletto tutto esteriore» (M.
Schneider).
§ 3. 3 Dioniso-Wagner
A Lipsia, il giorno di sabato 24 ottobre 1868,
Nietzsche ascolta, per la prima volta, con sommo entusiasmo, il Vorspiel
del capolavoro wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg. È un evento. Scrive, quasi fuori di sé, all’amico
Erwin Rohde: «ogni fibra, ogni nervo, palpita in me e da tempo non provavo un
così persistente sentimento estetico».
Ma l’ardore, la passione, l’infervoramento a poco
a poco si spengono, sino, addirittura, a trasformarsi in opposizione e in conflitto,
in rifiuto e in dissenso totale. Marcel Schneider osserva: Nietzsche aveva
visto in Wagner l’artista dionisiaco ideale, una specie di prefigurazione di
Zarathustra. Quando si avvide che il pensiero del musicista oscillava tra il
pessimismo schopenhaueriano, il buddismo e il cristianesimo, lo abbandonò:
Wagner non poteva aiutarlo a instaurare l’ottimismo moderno, aristocratico, al
di là del bene e del male, che egli voleva fondare e che incaricò Zarathustra
di predicare in nome suo».
Eppure, il
filosofo intravede proprio nella figura e nell’opera di Wagner, ora, l’unica
speranza di far rivivere lo spirito dionisiaco dell’antica tragedia greca, scorgendo
nella sua musica l’antitesi al socratismo razionalistico dell’opera lirica
tradizionale, fondata sulla predominanza della parola sulla musica.
In Wagner egli
aveva individuato colui che, superando la tirannia dialettica instaurata nella
tragedia “deviata” dalla deriva razionalistica euripidea, avrebbe fatto
risorgere il senso ultimo dello spirito tragico greco delle origini; ed era
questo un senso inaudito, pervaso da una potenza misteriosa, e che tutta si
fondava, abbiamo visto, su di una duplice e anfibia coincidenza di impulsi: l’apollineo e il dionisiaco.
Ma in quale
modo, e in che misura l’opera di Wagner riusciva a dar vita, secondo Nietzsche,
a una tale enigmatica e ancipite prospettiva estetica? Il filosofo aveva in
mente alcuni aspetti specifici ch’erano tipici dell’arte wagneriana: e cioè, da
un lato, la fluida, avvolgente, ininterrotta tensione melodica capace di
offrire la profondità di uno sguardo vòlto a fissare le sembianze più estreme,
paurose e strazianti dell’esistenza (attraverso l’immersione nella prospettiva
dionisiaca), e, dall’altro lato, una spinta “apollinea” alla sublimazione e al superamento dell’umano, per il tramite
della creazione di figure di straordinaria, superiore nobiltà (da Lohengrin a
Parsifal, dall’Olandese a Tristan, da Senta a Elsa a Isolde, etc.) pronte a
mostrare virtù esemplari fondate sulle due principali coordinate etiche e
metafisiche della drammaturgia wagneriana: i concetti di Erlösung (redenzione) e Mitleid
(compassione): virtù che sembrano già disegnare il profilo eversivo ed
eccezionale dell’oltre-uomo nicciano.
§ 4. L’Uno
contro il «due»
Dunque, la rinascita dello spirito tragico greco
non può che avvenire, secondo il Nietzsche di questi anni, sotto gli auspici
della rivoluzionaria visione d’arte di Richard Wagner: questi è accolto come
colui che sovverte, con la sua opera, il predominio della parola sulla musica,
forzando violentemente il corso della storia del teatro musicale, nato come espressione e potenziamento della parola
cantata.
Le creazioni
wagneriane rappresentano, così, secondo il filosofo, la più compiuta
rappresentazione dello spirito dionisiaco,
in quanto nel dramma musicale wagneriano «la musica, attingendo al suo
originario fondo dionisiaco, riacquista il suo primigenio carattere, si mostra
irriducibile alla categoria della bellezza
e alle arti apollinee del sogno» e perciò suona «come espressione del tragico, linguaggio più misterioso e più
vero che travolge il mondo dell’apparenza e la falsa chiarezza della norma del giorno»
(D. Venturelli).
La luce ingannatrice della vita diurna è, allora, da intendersi come un apollineo velo che ricopre e nasconde, rendendolo per qualche ora sopportabile, il volto atroce e tragico (dionisiaco) dell’esistenza: un volto che potrà essere scorto nella sua totale profondità solo immergendosi nella notte della coscienza, e dunque superando il principium individuationis, per giungere, infine, all’estasi, alla perdita di sé e del proprio io: poiché non si può onestamente far derivare il tragico dall’essenza dell’arte qual essa è comunemente intesa secondo l’unica categoria della parvenza e della bellezza; solo partendo dallo spirito della musica possiamo riuscire a comprendere la gioia per l’annientamento dell’individuo».
È una visione che denuncia una chiarissima impronta schopenhaueriana. E l’opera wagneriana che più di tutte assorbirà la lezione schopenhaueriana dell’abbandono della volontà in favore della noluntas, della ricerca dell’annegamento nella notte dell’auto-cancellazione da contrapporre alla falsa e ingannatrice verità della luce diurna sarà il Tristan und Isolde.
§ 5. La
Notte e il Giorno
L’auto-annientamento
e il desiderio di immersione nel buio della noluntas
sono possibili solo nell’autentica fusione di un amore estremo, di carattere
mistico, nel quale la vita deve assomigliare a una morte liberatrice.
È un amore nel
quale la duplicità e la separazione dei due amanti sono intesi come il male più
grande: ché lo scopo finale di Tristan e Isolde è quello di amare «in eterno uniti
/ senza fine, / senza risveglio, senza sospetto, / senza nome».
È la
congiunzione e a essere identificata con l’origine del dolore: «quella
paroletta che sembrava voler congiungere è, invece, proprio essa a confermare e
ribadire l’insopprimibile condizione dell’esser due, dell’esser distinti
e rimanere tali. Il Tristano e Isotta si trasferisce allora in un piano
dialettico, e si compendia simbolicamente nel rapporto del due che vuol
risolversi nell’Uno; il quale costituisce tutta la sua incessante aspirazione
ed è, del due la stessa condizione esistenziale»; ed è per questo che
l’opera «adombra tale duplice stato nella metafora del giorno, il due, e
della Notte, ossia irraggiungibile Uno» (E. Borrelli).
Non sarà
difficile, ora, capire quanto Nietzsche, all’epoca fervente lettore
schopenhaueriano, fosse attratto da una simile visione nella quale il problema
del dualismo dialettico (figlio del razionalismo euripideo e socratico) è artisticamente
risolto con il ricorso a una sorta di rimbaldiano deragliamento dei sensi:
il giorno e la notte, Apollo e Dioniso, il molteplice e l’Uno, la ragione
ordinatrice e l’estasi della follia ritrovavano, allora, finalmente, la strada
di una magica convergenza in virtù dello spirito della musica.
§ 6. Filosofia o poesia?
Si è osservata,
prima, la natura della soluzione (e, dunque, del superamento) del
dualismo dialettico, tipica espressione della deriva euripidea della tragedia
greca.
Ora tale natura è, abbiamo visto, di tipo
artistico: è solo l’illusione sublimatrice dell’arte che permette una gioia
metafisica nell’affrontare l’assurdità e l’insensatezza dell’esistenza.
E il carattere artistico di tale
visione può essere tradotto in modo compiuto non già dalla parola, ma
dalla musica, considerata come la più ideale espressione dionisiaca del
fondo tragico delle vicende umane: perché «la gioia metafisica per ciò che è
tragico è una traduzione, nel linguaggio dell’immagine, della sapienza istintivamente
e inconsciamente dionisiaca. […] “Noi crediamo alla vita eterna”, così grida la
tragedia, e la musica è l’immediata idea di questa vita. […] nell’arte
dionisiaca e nel suo tragico simbolismo ci parla la natura stessa con la sua
voce vera, non contraffatta: “Siate come
sono io! Nell’incessante mutamento delle apparenze, la madre primigenia,
eternamente creatrice, che eternamente costringe all’esistenza, che eternamente
si appaga di questo mutamento dell’apparenza!»
Una tale
straordinaria concezione non poteva che esprimersi seguendo un’impostazione che
si dirigesse, volutamente, su di una strada anti-sistematica e anti-accademica
(dunque, più rapsodica, più poetica, più musicale che
filologica o filosofica).
In questo modo,
allora, dobbiamo intendere La nascita della tragedia? Come, cioè, un
affresco libero e genialmente eversivo e radicale, o come un libro scientifico
e ambiziosissimo, capace di riunire e di far convergere la filologia con
l’originalità speculativa, la critica d’arte con la critica musicale, la prosa
poetica con l’analisi storica?
Secondo Sossio
Giametta, il libro non può essere «salvato», e dunque accettato, solo come
opera filosofica. Può dunque essere accolta, oggi, anche come
opera poetica? Benedetto Croce si domandava, agli inizi del Novecento: «Quanti
dei lettori, attirati e trascinati dagli splendori della forma espositiva, intenderanno
davvero questo genialissimo libro? […] contro l’apparenza di una convinzione,
che nasce dalla moda del nietzschianesimo, mi sia lecito proporre il mio dubbio». Esso è un libro «circonfuso d’arte», e vi si esprime una filosofia
«veramente poetica, in cui non mancano né la lirica né il dramma né la satira.
Eschilo ed Archiloco, Euripide e Socrate, rappresentati dal Nietzsche, sono
vere dramatis personæ».
La verità
l’aveva, forse, già còlta Cosima Wagner, quando scrisse al filosofo: «ho letto
quest’opera come un poema»?
La nascita della tragedia resta un’opera ambigua e aperta, irrisolta e
fascinosa. Il suo andamento circolare, nervosamente discontinuo, obliquo e
sfuggente, sembra far pensare a una specie di inesausto fluttuare che sempre
conduce a una dispersione e a un naufragio.
In questa
lingua trasversale e perennemente tesa, che appare sempre sospesa tra il
sacrale e lo scientifico, tra l’istintuale e il rigoroso, tra il desiderio
della chiarezza e la pulsione alla destabilizzazione e al rovesciamento,
possiamo riconoscere una tendenza segretamente eraclitea nella prospettiva
dello sguardo nicciano.
Il filosofo
avrebbe scritto: «l’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il
carattere decisivo di una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla
guerra, il divenire, con rifiuto radicale perfino del concetto di “essere” – in
questo io debbo riconoscere quanto di più affine a me sotto ogni aspetto sia mai
stato pensato finora».
Proprio questo
incondizionato amore per il flusso e per l’annientamento, per la gioiosa
contraddizione e per il continuo, ininterrotto scorrere e mutare di ogni
pensiero condurrà il filosofo, qualche anno dopo, a ripudiare e a contrastare
con violenza l’intera visione del mondo filosofico e musicale di Richard Wagner,
avvertendo, in essa, il pericolo di un tradimento inaccettabile: il sospetto,
cioè, di un’ adesione alla decadente prospettiva del Cristianesimo, il
rifiuto del culto di Dioniso in favore di un inginocchiamento di fronte al Crocifisso.