Il Barbiere di Gatti e Martone: un “felice innesto” di musica, cinema e teatro


di Mario Fresa


È goyesca la Siviglia immaginata da Mario Martone: una Siviglia fantasmatica, solo evocata, che si avverte ironicamente mordace, perfida e nera, drammatica e sensuale; più sarcastica che buffa; più malinconica che lieve. L’atmosfera è quasi sempre mesta e cupa. Rosina appare come una Maya sì calorosa, ma anche dotata di un sotterraneo senso di crudeltà verace (quando Bartolo, in procinto di farsi radere la barba, ingiunge a Figaro: «Stringi!», alludendo all’asciugamano, lei suggerisce al barbiere di strozzarlo); Don Basilio, vestito con severa eleganza, come un greve Inquisitore, entra in scena con uno sguardo mefistofelico e teterrimo, quasi simile a uno Scarpia che stia lì lì per sbottare: «Un tal baccano in chiesa!»; e continua a mostrarsi sempre così, tutto accigliato severo imbronciato, come una sorta di caricatura boitiana (ed è per questo, naturalmente, comicissimo); Bartolo è inchiodato a una sedia a rotelle: ma ciò non gl’impedisce di essere minaccioso e petulante, torbidamente sospettoso e diabolico (e, viva Zeus!, per fortuna non si è visto, questa volta, il tutore trasformato nel solito vecchio rimbambito, pieno di caccole e di gags da avanspettacolo). L’unica luce, giovanile e spiritosa, proviene da Almaviva e Figaro: qui sembrano davvero due amici burloni e complici (i problemi, tra loro, arriveranno dopo, quando il barbiere sarà vicino alle nozze con la sua Susanna…); due amici che si divertono un mondo a prendere in giro quei pesanti parrucconi reazionari di Bartolo e Basilio, riuscendo trionfalmente, alla fine, coi loro buffi stratagemmi, a liberare l’infelice Rosina dal fitto e claustrofobico labirinto di costrizioni che è la prigione della sua abitazione (anche il suo abito nero, non per caso, viene cambiato, nell'ultima scena, in un luminoso abito bianco da sposa…).

 

Uno spettacolo bellissimo, acuto, intelligente, toccante. Martone lo propone in forma filmica: Rai tre lo ha trasmesso ieri pomeriggio, in occasione dell’inaugurazione della stagione 2020-2021 del Teatro dell’Opera di Roma.

Le scene sono costituite dallo stesso teatro, malinconicamente vuoto (suonano davvero tristi le parole di Fiorello che, guardandosi attorno, canta: «Tutto è silenzio, nessun qui sta / che i nostri canti possa turbar»…). La casa di Don Bartolo, cioè tutta la platea, è invasa da una ragna di corde intrecciate: un intrico di regole, di costrizioni, di leggi, di imposizioni che la povera Rosina è costretta a sopportare…; sarà Figaro a provvedere al primo taglio di queste corde, alla fine dell’opera: «Io smorzo la lanterna; / qui più non ho che far».

Vi è una specie di bifrontismo, nella visione che di quest’opera ha Martone. Il senso di tristezza, per esempio, si coniuga sempre con il riso: si capovolge, cioè, in un improvviso e inatteso sberleffo. Due esempi soltanto: Berta si lamenta, con sincera commozione, della sua «vecchiaia maledetta», ma termina la sua aria con uno sonoro starnuto; Rosina canta «Contro un cor che accende amore» come un’autentica dichiarazione di passione e di richiesta di aiuto, mentre Almaviva, davanti a lei, mima le abituali smorfie che i maestri di canto mostrano ai loro allievi quando tentano di offrire spiegazioni tecniche, non di rado strampalate e confuse (sulla posizione della laringe, sulla spinta da dare al diaframma, sulla necessità di tenere il suono “alto” e in maschera, sull'iscurimento delle vocali nella zona di passaggio…). Ma tutto convive armonicamente, in questo spettacolo che si avvale anche, felicemente, di uno straniante tocco di metateatralità (con le sarte del teatro che intervengono a vista per “travestire” da soldato il Conte d’Almaviva…)


Era difficile rendere ricco e interessante uno spettacolo all’interno di un teatro vuoto. Intendiamoci: il merito è anche, per non dire soprattutto, degli esecutori musicali. Il direttore Daniele Gatti si dimostra un filologo illuminato: sceglie tempi sempre mobili e cangianti (con sottili, continue, sorprendenti oscillazioni agogiche) e fa scoprire, della partitura, zone coloristiche sconosciute; il suono dell’orchestra è brillante e corposo (ben lontano dal Rossini “mozartiano”, dal colore aguzzo e alleggerito, di Claudio Abbado…); e intelligentemente fa aggiungere, ai cantanti, non poche puntature e variazioni (alcune scontate e tradizionali, come nella cavatina di Figaro; altre più mosse, vivaci e originali, come quelle cantate da Rosina). I Recitativi semplici sono stati accompagnati da un fortepianista e da un violoncellista (soluzione un po’ troppo… settecentesca), prodighi sempre di spiritosi e originali abbellimenti.

Buone notizie dal cast. Andrzej Filonczyk, un russo che pronuncia (e accenta) l’italiano in maniera sorprendente, è un buon Figaro, dotato di una voce timbrata e molto sicura nel registro acuto. Non è un autentico buffo, ma un vero e proprio baritono, di voce solida e ben impostata; è apparso prudente, e solo un poco impacciato, nella vocalizzazione e nelle agilità (queste ultime troppo allentate e insicure, ad esempio, nel duetto con la pupilla: «Ah che volpe sopraffina, / ma l’avrà da far con me…»). Il tenore Ruzil Gatin, scenicamente simpatico e brillante, canta discretamente il ruolo del Conte d’Almaviva. Un tenore chiaro, forse troppo; lontanissimo, dunque, dalla fisionomia vocale del primo Almaviva, quel leggendario Manuel García che, provvisto di una voce potente e brunita di baritenore, saliva al registro acuto (dopo il Sol3) con l’utilizzo del falsettone rinforzato e che addirittura duettava con sé stesso, alternando la voce di petto e quella di testa.

È stato sempre, certo, un bel problema cercare chi potesse avvicinarsi a questo grande cantante: ché un Almaviva ideale avrebbe bisogno del timbro di Dano Raffanti, dell’estensione di Chris Merritt, delle agilità di Rockwell Blake, della simpatia e della comunicativa di Luigi Alva…; ma torniamo, ahinoi, con i piedi sulla terra. Gatin riesce con onore a sostenere la parte: la coloratura è spesso, tuttavia, piuttosto arronzata (ed è per questo, probabilmente, che ha deciso di rinunciare a cantare l’ultima grande aria del Conte, Cessa di più resistere) e si avverte nella sua voce un leggero, e non molto piacevole, vibrato stretto.

Il mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya è stata una Rosina esemplare: voce bella, morbida, scura, fluidissima e puntigliosa nelle fioriture e nella coloratura (anche nello staccato e nel picchettato); un eccellente registro di petto; una ragguardevole estensione; una recitazione, poi, sempre attenta e perspicace, che ha soprattutto messo in rilievo l’aspetto energico, vigoroso, viperesco della stizzosa  pupilla. Una bella e felice sorpresa, dunque.

Quanto ad Alessandro Corbelli, egli è, senza alcun dubbio, il miglior baritono brillante degli ultimi decenni (appartiene, per intenderci, alla schiera dei grandi buffi del secondo Novecento: da Bruscantini a Capecchi a Panerai, da Montarsolo a Dara a Desderi…). Voce chiara ed elegante, perfettamente impostata; dizione esemplare; tecnica eccellente (con un magnifico uso del sillabato); sapienza scenica eccezionale, capace di esprimere una comicità sempre discreta e sottile, e mai chiassosa o volgare. Il suo è un Don Bartolo serioso, di nera autorevolezza, ma al contempo spassosissimo: quando canterella, con accento napoletano, «Ah, quando per esempio cantava Caffariello»… rende un omaggio, intelligentissimo, all’antica Scuola napoletana dei grandi operisti (da Pergolesi a Piccinni, da Cimarosa a Paisiello…); e quando, poi, in un Recitativo dell’atto secondo, dice: «È quel briccon che al Conte ha portato il biglietto di Rosina» riesce a fare il verso, felicemente, addirittura a Totò (dietro suggerimento, immaginiamo, di Martone).

Alex Esposito è un basso-baritono (più baritono che basso, in verità) di consolidata esperienza. Attore talentuoso, ha dipinto un Basilio comicamente arcigno e sulfureo, viscido e fosco; e ha cantato con voce pastosa, rotonda, sonora (eseguendo, però, La calunnia in Do maggiore e non nel prescritto Re maggiore; forse per evitare lo scoglio dei due Fa diesis coronati sul «Va a crepar»). Perfetta, sia scenicamente sia vocalmente, la Berta di Patrizia Biccirè.

Uno spettacolo, in definitiva, molto riuscito; peraltro salutato con grande ammirazione (e con gratitudine) dai non pochi spettatori televisivi.