Il "Rigoletto" di Gatti: splendore e precisione



di Mario Fresa

Ieri, 16 luglio, c’è stata la prima del Rigoletto al Circo Massimo di Roma. Si è molto discusso della regia di Damiano Michieletto, dissacrante e sovversiva (ne parleremo tra poco); non ci si è accorti, però, che l’autentico gesto rivoluzionario e coraggioso lo si deve al direttore Daniele Gatti e all’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. 
Gatti ha, innanzi tutto, utilizzato (ma a quanto pare nessuno lo ha notato) la benemerita edizione critica dell’opera (1983) realizzata a cura di Martin Chusid: in teatro, il primo a farcela conoscere è stato Riccardo Muti. Eravamo abituati, da molti anni, a un Rigoletto plateale, con puntature acute e interpolazioni che avevano falsato del tutto il senso e il significato profondo di certi cruciali passaggi. Qualche veloce esempio? Per decenni abbiamo sentito la frase di Rigoletto «No, vecchio t’inganni! Un vindice avrai» (batt. 192-194) con il do finale di «un vindice avrai» trasformato in un mi bemolle: una nota che assume, così, la “comoda” funzione di dominante della nuova tonica, il la bemolle successivo («Sì, vendetta»). Si tratta di un errore drammaturgico! Perché quel mi bemolle “prepara” troppo morbidamente l’attacco del furibondo «Sì, vendetta».
Verdi chiede, tra l’altro, prima dell’attacco di quella incandescente frase, una raggelante pausa coronata di semiminima: non un accomodante “ponte” che stabilisca una banale successione di note armonicamente consequenziali. Lo scopo è quello di far apparire come inattesa, violenta, feroce e imprevedibile la dichiarazione di vendetta del gobbo.
Lo spettatore deve restare sorpreso, stupito, disorientato.
Ecco: ieri sera abbiamo ascoltato, finalmente, il rispetto di ciò che ha voluto intendere il compositore. E che cosa è stato particolarmente espressivo e inquietante? Quella pausa magistrale di semiminima (a noi è sembrata lunghissima e carica di angoscia) che il direttore e l’orchestra hanno saputo far avvertire in quel preciso momento. Una pausa che sembrava una sorta di sospensione vertiginosa sulle soglie di un precipizio.
Gatti ha ripristinato, poi, la cadenza originaria di Verdi nel duetto Duca-Gilda. Sono state, inoltre, abolite le solite e circensi chiusure in acuto delle arie e dei duetti. Minimo esempio: il Pari siamo (atto Primo) è stato concluso (sulla frase «Ah no, è follia!») non già con il sol acuto aggiunto impropriamente dalla tradizione, ma con il prescritto mi bemolle eseguito tra l’altro piano, con straordinaria sensibilità, da Roberto Frontali.
Molte altre dannose interpolazioni sono state eliminate. Ancora un esempio: alle battute 63-71 dell’aria di Gilda, Caro nome, è stata rispettata e compresa una bellissima idea compositiva verdiana (quasi sempre, ahinoi, disattesa dalle cantanti e dai direttori): laddove quasi tutti i soprani aggiungono, sulle parole Gualtier Maldè, una interpolazione arbitraria (inserendo un mi sull’ultima sillaba del nome, ), Rosa Feola ha cantato secondo le intenzioni dell’Autore che chiede, in partitura, di far udire quel nome, per due volte di seguito, facendolo ripetere sempre sulla stessa nota, sul si. Ciò produce l’effetto di un magico istupidimento, di uno stupore ipnotico che ben esprime l’improvviso e meravigliato fiorire del sentimento d’amore nella sventurata ragazza. Il soprano e il direttore hanno bandito, poi, giustamente, qualsiasi ulteriore fioritura: Caro nome, ricordiamolo, è un’aria intimistica, notturna; è un dolcissimo pensare ad alta voce che non può contemplare inutili e plateali abbellimenti (e quante volte, tuttavia, abbiamo ascoltato Gilde “bamboleggianti”? Possibile che i direttori non comprendano che l’aggiunta di cinguettanti acuti e sovracuti, in quell’aria, non può che rafforzare l’equivoco di una Gilda vittima, ebete e sciocca?). E poi: le confessioni d’amore vanno sussurrate, non mai urlate. Ed è per questo motivo che la stessa Parmi veder le lagrime, l’aria del Duca che apre l’Atto secondo, non può accogliere l’interpolazione del si bemolle acuto sulla frase «Ei che le sfere agli angeli»: è una intemperanza illogica e inelegante. In tutti gli altri luoghi musicali il Duca è sempre debordante, sopra le righe: qui, in quest’aria, mette stranamente da parte la sua abituale arroganza (ma qual è, ci chiederemmo, la sua vera natura?); e il cantante, allora, dovrebbe imparare a smorzare i suoni e a ingentilire l’accento, senza aggiungere puntature pacchiane (perché si ascolta, in quel momento, un Duca inedito e quasi… irriconoscibile; il suo dispiacere sembra sincero; è dunque davvero innamorato di Gilda? Verdi ce lo fa quasi credere…).

È stata rispettata, poi, un’ulteriore, fondamentale indicazione della partitura verdiana: molti interpreti di Rigoletto si mettono a urlare forsennatamente («Gilda!» «Gilda!») alla fine dell’Atto primo, quando il gobbo capisce che sua figlia è stata rapita; ma Verdi fa annotare dal suo librettista che Rigoletto «si strappa i capelli senza poter gridare».

Poi, nessuna puntatura acuta sulla frase finale: «Ah, la maledizione!» di Rigoletto (il motivo musicale è appunto quello della maledizione di Monterone: ce lo èvoca già l’attacco del Preludio, con la tromba e il trombone in ottava che ribattono, sinistramente, il do). La frase non dev’essere variata. Non può essere altrimenti: le ossessioni tornano alla nostra mente e ci tormentano con gli stessi medesimi suoni e con le stesse immagini; ed è la loro perfetta immutabilità a renderle così traumatiche e martellanti. Il destino ama spesso le simmetrie, le coincidenze, l’inarginabile ritorno dell’eguale.

Dovremmo aggiungere molte altre informazioni sull’edizione critica di Chusid (e non soltanto, si capisce, sulle questioni vocali). Grazie all’edizione si sono ripristinate, ad esempio, certe specifiche parole nel libretto; il Duca non dice «Una stanza e del vino» ma, più sfacciatamente, «Tua sorella e del vino»; Sparafucile sbotta, mefistofelico: «Ancora mezz’ora», invece del più speranzoso «Ancor c’è mezz’ora».
Non sono inezie bizantine, queste. Il direttore Gatti lo sa bene. La sua concertazione è stata eccezionale, perché ha fatto comprendere con estrema sottigliezza espressiva, e con una straordinaria abilità esecutiva, i desideri dell’Autore. Ciò è avvenuto, ben inteso, anche grazie all’eccellente Orchestra dell’Opera di Roma: una compagine dal suono preciso e trasparente, luminoso e vibrante; e sempre, dico sempre, magnificamente espressivo.
E le voci? Era già prevedibile l’intelligenza artistica del protagonista Roberto Frontali. Ma ieri ci ha addirittura sorpreso. Il rispetto delle indicazioni della partitura è stato esemplare: il baritono è riuscito anche a eseguire, sul fa acuto, il difficile passaggio dal f al pp che Verdi chiede per la frase «Tu taci…» (batt. 112) del Cortigiani, vil razza dannata. Il Recitativo «Della vendetta alfin giunge l’istante» dell’ultimo Atto è stato affrontato dal cantante romano con un’agogica dilatata e con una dinamica insolitamente trattenuta; ed è, questa, una splendida intuizione: Rigoletto non può certo gridare al mondo di essersi vendicato, di aver commesso (sebbene indirettamente) un omicidio. Perché, dicevamo, Frontali ci ha sorpreso? La sua voce ricca, elegante, pastosa la conosciamo bene; ma le sue capacità di attore ci sono sembrate, ieri, impressionanti: di rado si è visto un Rigoletto così tanto disperato, smarrito, incessantemente divorato dai propri terribili fantasmi.
Altrettanto sorprendente Rosa Feola. La perfezione della tecnica della sua voce si è unita a una eccezionale capacità di analisi psicologica del personaggio. 
Riccardo Zanellato è stato Sparafucile. Il direttore gli ha chiesto spesso di cantare piano (ad esempio, nel duetto con Rigoletto), quasi imprimendo ai suoi interventi un’aria di tetra cospirazione; e ciò è assai giusto. Sparafucile è un sicario che deve agire nel silenzio e nel buio, e non nel chiasso. Anche Muti, nella sua prima incisione del Rigoletto (EMI, 1988) chiese a Paata Burchuladze e a Giorgio Zancanaro di cantare il duetto ricorrendo al piano e al pianissimo. Come dargli torto? Riflettiamo: siamo di notte e uno sconosciuto si è avvicinato a Rigoletto, facendogli sapere di essere un omicida prezzolato che attira le sue vittime grazie alla bellezza di sua sorella: come potrebbe fornire tali informazioni a voce alta, facendo udire a tutti il proprio nome (col vezzo quasi comico, semmai, di estendere all’infinito il suo fa grave finale?).
Il ruolo del Duca è stato affidato a Iván Ayón Rivas. Un buon tenore che, tuttavia, non ha saputo raccogliere a dovere tutti i miracolosi suggerimenti del direttore e dell’orchestra, risolvendo molti passaggi con una certa grossolanità espressiva. Ad esempio, il sol di chiusura di Parmi veder le lagrime, che Verdi raccomanda di eseguire dolcissimo, è stato un po’ fibroso e duro (e non molto affettuoso); e ancora più spiacevole è stata la chiusa finale della ripresa della Donna è mobile, con quel si acuto sparato a tutta voce; l’Autore chiede, per quella nota, un pianissimo: specificando che essa va «perdendosi a poco a poco in lontano». Non è un particolare da poco: dal punto di vista espressivo, quel si decrescente è una sorta di…sberleffo finale e appare molto più arrogante, più disturbante e più “offensivo” di un si voluminoso e urlato.

La regia, infine. Ha fatto concentrare su di sé tutta l’attenzione dei presentatori televisivi (lo spettacolo è stato trasmesso in diretta, su Rai5), che non hanno fatto alcun cenno né al direttore, né all’orchestra, né ai cantanti (non hanno notato, e ciò mi è parso grave, nemmeno che Gatti ha utilizzato l’edizione critica; il direttore d’orchestra è stato invece nominato dall’azzimato presentatore solo perché questi gli ha notato un’insolita barba sul viso).
Ora, Damiano Michieletto intende sempre, lo sappiamo, raccontare altre storie, ulteriori trame “parallele” alla narrazione di un’opera.
Abbiamo trovato, in questo suo Rigoletto, moltissime idee forti: alcune felici, altre meno. Non si è avvertito, per esempio, l’enorme divario (sociale, politico, economico) tra il Duca e la corte, da un lato, e Rigoletto dall’altro lato. Tutti sembrano pósti su di un medesimo piano di aberrazione sociale, tutti partecipano a un comune destino di violenza e di orrore: e tutti sembrano, più o meno, dei malavitosi, dei disperati, degli esclusi. Ora, in Hugo e in Verdi l’unico grande escluso, il diverso, il grande disperato è Rigoletto-Triboulet: la corte appare ben lontana dalla disperazione, dalle sciagure, dai colpi della sventura (e risulta, finalmente, intoccata perfino dal destino). I cortigiani, qui, sono spacciatori, e il Duca sembra un piccolo Boss di provincia (il suo vestito da Tony Manero e i suoi capelli lucidissimi e tinti sembrano trasformare il personaggio in una specie di irritante caricatura – e il tenore sembrava bizzarramente uscito fuori da una Telenovela sudamericana degli anni Ottanta; tale strano effetto parodistico è involontario o fa parte di un preciso disegno registico?). In Hugo e in Verdi, il rapimento di Gilda-Bianca è un’azione maligna e dispettosa, uno sgarbo compiuto da nobili incattiviti e annoiati; o uno scherzo di pessimo gusto. Secondo la regia di Michieletto, il ratto è invece un’operazione di barbarica e sadica violenza in cui lo stesso Rigoletto finisce per essere malmenato. Il risultato è potente e sconcertante. 
Le proiezioni dei flashback del ricordo della madre di Gilda mostrano fotogrammi mentali stranianti e inverosimili. Ma come è possibile immaginare la “famiglia” di Rigoletto videoripresa nel corso di un’allegra vacanza domenicale sulla spiaggia? Si allude forse a una prima, lontana parte “normale” dell’esistenza del gobbo, che precede di molto il suo pauroso precipitare nelle abiezioni della “corte” di delinquenti da lui attualmente frequentata?

Il personaggio più centrato dalla regia appare, in ogni caso, Gilda. La sua presa di coscienza e la sua ribellione contro il padre, a partire dal terzo Atto, segnano una strada nuova e importante nella storia dell’interpretazione del capolavoro verdiano. E il suo presentarsi munita di pistola alla porta di Sparafucile e di Maddalena la fa diventare, in un attimo, il personaggio eticamente più forte e più coraggioso di tutto il dramma.

Ancora un’osservazione. Le regole del distanziamento hanno imposto ai cantanti di non avvicinarsi troppo. Ciò ha creato uno straordinario cortocircuito espressivo: ciascun personaggio è apparso dolorosamente lontano l’uno dall’altro (nessuno di loro, sulla scena, riesce davvero a comunicare con chi ha di fronte e, dunque, non può capirlo; sicché ciascuno ama, forse; ma in modo tale che il suo oggetto d’amore resti sempre incompreso o solo sognato o irraggiungibile sempre).
Nel Rigoletto non c’è possibilità di mutua comprensione né di redenzione: il padre non capisce (né mai capirà) sua figlia; Gilda, poi, comprende sé stessa, e la sua vera natura, solo alla fine, quando decide di sfidare Sparafucile e sua sorella (non ha intenzione di immolarsi: quando punta l’arma contro Maddalena è quasi certa di avercela fatta; lo sparo del sicario che l’uccide interviene a sorpresa, con un crudele e inaspettato tempismo); il Duca dichiara il suo amore “a distanza” alle donne che lo circondano; non può, non sa comprenderle. Per un attimo, crede di essere sul serio innamorato. Ma è lui, e non le donne amate, ad essere mobile qual piuma al vento.
Non c’è dialogo né alleanza nemmeno tra lo stesso Duca e i cortigiani: essi lo invidiano e, forse, lo odiano; riusciranno loro, un giorno lontano, a sbarazzarsene?

Rigoletto è un’opera, dunque, di relazioni interrotte e incomprese, in cui la stessa comunicazione tra i personaggi ha quasi l’aria di una continua congiura, di una tetra commedia delle maschere, degli infingimenti, dei sotterfugi.

Tiepido e poco entusiastico il riscontro degli spettatori presenti. Velenoso e stizzito il solito pubblico loggionistico del web, che di rado riesce a digerire l’ipotesi gravosa di dover rivedere in modo critico i propri comodi e collaudati schemi mentali (ci si aspettava, chissà, il classico Rigoletto con le spade di plastica, le gorgiere bianche, gli abiti rinascimentali e i super-acuti della vecchia tradizione: ma il teatro non deve essere crisi, stupore e sorpresa?).