Carmen e la sua danza ribelle


di Rosa Frullo

Un’opera carica di sensualità estrema, non subito apprezzata dalla critica. Entusiasmò il filosofo Friedrich Nietzsche, che avvertì in essa (per contrasto e opposizione nei confronti del Wagner “caduto in ginocchio davanti alla Croce”) il risorto (e davvero presocratico) spirito della musica di cui aveva tanto parlato nella sua Nascita della tragedia. La Carmen, Opéra-comique in quattro atti (Libretto di Meilhac e Halévy, tratto da un racconto di Merimée del 1845) fu rappresentata per la prima volta a Parigi, mercoledì 3 marzo 1875 (con Galli-Marié, Lhérie, Bouhy, Chappuy, dir. Deloffre) e ripetuta per oltre trenta rappresentazioni prima della morte del compositore, avvenuta tre mesi dopo. Immersa in una dimensione esotica e primordiale, quella della Spagna simbolo del Sud archetipico del mondo occidentale, l'opera accoglie in sé anche specifici caratteri stilistici tipicamente francesi (e non solo per la lingua adottata). Bizet assegna alla musica il sentimento di un’autentica rigenerazione dello spirito per il tramite della violenta (e innocente) forza dell’Eros; e, di pari passo, l’opera inneggia, di volta in volta, ai temi della libertà, della fratellanza (anche nel comune e inaggirabile destino mortale), altresì invitando, con dionisiaca passione,  a immergersi nell'amore (e, dunque, nel precipizio turbinoso della stessa esistenza) sempre gioiosamente “al di là del bene e del male”. La protagonista è pronta a giocare pericolosamente con la vita, come il demonico e ribelle Giovanni mozartiano. Due mondi, dunque, si combattono senza tregua sulla scena del capolavoro di Bizet: quello gitano, primitivo, libero e spietato, in cui un personaggio femminile, forte e determinato, obbedisce soprattutto all'istinto ed è pronto ad accogliere senza timore, e in modo assoluto, l'esito tragico e sanguinoso della propria esistenza; e quello della morale borghese di fine Ottocento, che finge di non vedere gli oscuri legami che stringono e legano i paradossali vincoli dell’Eros e della morte. È una visione dell’amore che si trasforma in qualcosa di sacro e di leggero insieme, come una spada affilatissima che appare tanto fine, quanto precisa, e ineluttabile, nella sua mira; lo stesso epilogo funebre dell’opera è accompagnato, da lontano, con un paradossale senso di straniante controcanto, dalla musica festosa della Corrida.
Friedrich Nietzsche non aveva, appunto, detto: "Tutto ciò che è divino corre con piedi delicati"?