Arvo Pärt e i suoi viaggi nell’infinito


di Francesco Terracciano


C’è uno spazio fisico, un luogo delimitato in senso longitudinale, che accoglie spesso il suono destinato ad accompagnare una pellicola cinematografica, chiamato "colonna" sonora per una determinazione vicina alle ragioni dell’architettura prima ancora che alle visioni dell’autore.
La storia del cinema è spesso legata al rapporto tra cineasti e compositori, un legame non meno forte di quello stabilito con gli sceneggiatori, soprattutto nel cinema europeo e sovietico dove il ruolo del regista corrisponde a quello di artefice, a differenza del modello statunitense in cui la regia è, in larga parte, il lavoro meccanico della messa in scena e poco altro disbrigo.
Un esempio di questa attitudine è il Vorspiel wagneriano del Tristan und Isolde posto da von Trier all’inizio di Melancholia come elemento sonoro principale dell’intera opera: il mito di Tristano e Isotta è una storia d’amore, ma soprattutto una vicenda dolorosa che inevitabilmente conduce alla morte, che suggerisce nelle sue caratteristiche estetiche una scelta precisa, una lettura condizionata rispetto alla simbologia del film, una struttura di narrazione altra.

Tra i musicisti che hanno collaborato a film di successo, un caso degno di nota è quello di Arvo Pärt - autore, tra gli altri, di uno dei brani che ritroviamo ne La Grande Bellezza di Sorrentino- che ha fatto scoprire ai non addetti ai lavori l’esistenza di una produzione alta di musica nel XX secolo. 
Come altri compositori che praticano la ricerca musicale con lo stesso metodo o con gli stessi mezzi - John Tavener e Henri Górecki, ma anche Vladimir Ivanovich Martynov, quest’ultimo più vicino ai canti religiosi russi- Pärt ha caratterizzato più di ogni altro il filone noto come minimalismo sacro, una musica in grado di evocare l’immateriale, l’incorporeo oltre l’aspetto fisico della realtà, con la sottrazione ordinata dei mezzi 
-nella maggior parte dei casi, una progressione lineare melodica punteggiata da una nota di basso- dove i cori, rivisitazione del canto gregoriano o della polifonia rinascimentale, si fanno notare per la trasparenza e la compostezza delle forme. 

Le tappe dell’itinerario umano e musicale di Arvo Pärt sono numerose, l’infanzia  a Rakvere, in Estonia, le trasmissioni di musica classica di Radio Finlandia, il conservatorio di Tallin e Heino Eller, l’espatrio, Vienna e la cittadinanza austriaca, Berlino; le prime composizioni degli anni Sessanta, Tabula Rasa, le Sinfonie e il brano Pro et Contra, quindi la lunga, assordante esplosione di fede del Credo.
L’opera di Pärt è, in larga parte, l’esito della conversione alla religione russo-ortodossa, il desiderio di fare silenzio dentro di sé, di isolarsi dalla contemporaneità compiendo un viaggio a ritroso verso le origini. 
La sua musica sembra fatta per l’acustica di una chiesa, unico luogo dove esistano particolari mondi della lentezza, Klangwelten der Langsamkeit, estranei al moderno e alla sua inconsistenza.
Il cuore della sua tecnica compositiva è basato sulla triade, l’accordo di tre suoni formato dalla sovrapposizione di due intervalli di terza. E le due note sopra la fondamentale della triade, la terza e la quinta, sono tra i suoni armonici che si formano più frequentemente quando viene colpita una campana.
Da questa ricerca è nato il principio del Tintinnabulum (una melodia che si muove intorno a una nota centrale, come una corda di recita, contornata da note della triade) che è diventato il tratto distintivo della sua musica. 
Il dettato, spoglio fino agli elementi essenziali, deriva dai primi polifonisti europei, da Leoninus a Ockeghem e Obrecht, e conduce a sperimentare una tecnica radicale di Perpetuum mobile su basi matematiche.
Anche nei momenti più complessi, la scrittura di Pärt è fondamentalmente a due sole voci: quella principale, che si potrebbe definire «melodia», e la seconda che costituisce l’«accompagnamento» armonico, determinato a seconda del rapporto tra la nota della voce principale e la triade prescelta, le cui note sono generalmente situate sotto la «melodia». Ne consegue che i lavori di Pärt sono sempre ancorati alla tonalità, ma con una continua oscillazione tra consonanza e urto, con un profondo senso di unità nel legare melodia e accompagnamento.

Uno degli esempi più suggestivi di questa tecnica è My Heart's in the Highlands, composto per il cinquantesimo compleanno del controtenore David James, membro di The Hilliard Ensemble.
Il testo prende a prestito una poesia del poeta scozzese Robert Burns, trasmessa nel canto sillabico su un'unica nota, con una parte vocale statica e una armoniosa compensate dal dinamismo di un organo.
È un’elegia senza tempo, un’espressione assoluta di sofferenza e di rimorso per la perdita della casa di origine, per l’allontanamento forzato dal centro degli affetti.
Non è una sorpresa scoprire che il lamento di Robert Burns sia stato spesso cantato, non da ultimo nell'adagio di Arvo Pärt, declinando solennemente il cuore e il suo perimetro, perché esiste una connessione tangibile tra Heimat, la piccola patria del poeta, e il bisogno esistenziale della controparte che riguarda anche noi moderni di riflesso. 
Non possiamo sapere da dove abbia origine né dove sia diretto il desiderio del narratore – potrebbe trattarsi di un luogo ideale qualunque, di un’altra determinazione geografica che non corrisponda alle Highlands ma non sarà necessario concentrarsi sul punto essenziale della sua contemplazione, sul dettaglio biografico o sulle immagini romantiche di ciò che l'eredità scozzese attribuisce in termini di identità: “…The birth-place of Valour, the country of Worth “, o le Highland clearances, l’esodo dalle Highlands per far posto a pecore e cervi, è sempre un canto del poeta alla patria perduta, e un cammino del compositore al di fuori dello spazio, nelle onde del tempo.
Per Burns come in seguito per Walter Scott e Robert Louis Stevenson, la causa comune della nazionalità guadagna un nuovo sostenitore, e lo stesso accade per Part nella complessità delle vicende che hanno portato l’Estonia ad affrancarsi dal regime sovietico.
L'uso da parte del poeta dell’anafora, la ripetizione formale di frasi, agisce suonando una campana di memoria identica a quella del compositore, che risuona rafforzando la nostra comprensione, dicendo del significato di una realtà che trascende i confini, della colpa e del perdono che riguardano il singolo come tutta l’umanità.



(My Heart's in the Highlands Else Torp and Christopher Bowers)

Potrei paragonare la mia musica alla luce bianca: essa contiene tutti i colori, solo il prisma può dividerli e farli apparire. Questo prisma potrebbe essere l’anima di chi ascolta” - Arvo Pärt.