Mozartiana (2): Quale classicisimo?


di Sebastiano Aglieco


Lerrore che quasi sempre si compie ascoltando Mozart, almeno nell’ambito di una considerazione popolare basata sullo stereotipo di una musica apollinea sgravata dai turgori dell’oscuro, è pensare la sua musica bloccata nei risvolti maturi di un classicismo dai tratti mantenuti stabili, con pochissime variazioni nel tempo. Questa considerazione pone un serio problema: o i moderni non hanno capito che cosa sia stato veramente il classicismo, oppure hanno ragione i fautori di esecuzioni formalmente trattenute, senza alzare i toni, basate sulla ragione che il romanticismo è ancora a venire e che quindi si debba guardare al classicismo come un’espressione estetica che si stava costruendo per scoperte repentine: -  innovazione -,  e prestiti dall’opera italiana - tradizione - .
Ma come spiegare certi scoppi chiaroscurali, così potenti da far caracollare qualsiasi idea di “classicismo bianco”, nel caso di momenti musicali come questo?: l’aria di Elettra nell’Idomeneo.
Mozart compone l’Idomeneo a 25 anni. Nel corso dei suoi viaggi in Italia, egli ha conosciuto musicisti e maestri; ha consolidato il suo stile attingendo dalla tradizione italiana, rinnovandola via via con l’apporto del suo genio riassuntivo. Ha incontrato Jommelli, soprattutto Josef Mysliveček; ha ascoltato Paisiello... Nel corso di queste esperienze, la sua musica è maturata per tappe successive... si ricordi almeno Ascanio in Alba, Mitridate re del Ponto, esempi musicali di queste nuove acquisizioni.
Non bisogna dimenticare che la riforma gluckiana è già avvenuta. L’Orfeo ed Euridice è del 1762. Opera prorompente, anche per la pletora di musicisti che finiscono per rientrare nello stesso clima, Piccinni per esempio. Per capire la mutazione, basta ascoltare qualche saggio delle opere precedenti dello stesso Gluck; le prime sembrano addirittura indistinguibili dal clima barocco dell’opera italiana, nell’espressione delle sue scuole più prestigione… indistinguibili da Handel, addirittura. Il passo è stato, dunque, non solo culturalmente ma anche musicalmente, rivoluzionario. Com’è potuto avvenire un mutamento musicale - dico delle forme musicali! -  così radicale? È una questione che da sempre attanaglia la mia curiosità.
Ascoltare un’espressione musicale come se fosse una stella che improvvisamente splende nel cielo, se da una parte può rappresentare espressione di un godimento fuori dal tempo, dall’altra non aiuta a capire le questioni. 
L’aria di Elettra D'Oreste, d'Ajace (Atto Terzo, Scena X), ascoltata in sé, è sconvolgente per la forza quasi brutale che riesce ad esprimere, per il clima martellante dell’orchestrazione - gli strumenti sembrano quasi uscire dalla loro stessa cassa acustica - ma è musica che Mozart ha maturato nella culla del nuovo clima; perché il genio è fondamentalmente questo: capacità di macinare le esperienze e di fonderle rapidamente in una nuova estetica dell’arte, portandola verso nuovi territori.
Ciò che colpisce in questa musica è che non si tratta di un’invenzione archiviabile nei confini di un’opera giovanile. Esprime la stessa forza che ritroviamo anni dopo: lo stesso colore di molti passaggi del Don Giovanni, del Flauto Magico, del Requiem, della Sinfonia in sol minore, al suo tempo definita “orrida”. Quel colore scuro è un’acquisizione per sempre, una maturazione avvenuta già nell’età delle prime entusiasmanti scoperte sull’arte e sul mondo.

Il clima stravolgente dell’aria di Elettra non a caso è dovuto alla descrizione di uno stato di abbruttimento psicologico, di annientamento nel dolore. Le furie sconvolgono il cuore di Elettra, che, cantando, è menade, invasata. L’aria è sconvolgente proprio perché travolge noi stessi, chiama alla luce le nostre furie e il nostro dolore. L’orchestra imita coltelli che feriscono, assalti di mani artigliate. E infine commuove.
A proposito di queste due idee di classicismo, non sempre conciliate o conciliabili: un classicismo “bianco”, composto, inquadrabile nell’area di un’architettura classica -  si pensi alle lapidi funerarie del quarto secolo in Grecia, ma anche lo stesso Mozart ne dà un esempio nella sua ultima opera, La Clemenza di Tito, confermando il mistero delle sue fluttuazioni musicali - e un altro classicismo, ben più complesso, più sfuggente, già investito di un tremore tutto interno che improvvisamente emerge deflagrando, si ascoltino queste due diverse versioni dell’aria. Si tratta di due modalità esecutive che sono espressioni di scuole di pensiero diverse -  si ascolti come, nell’esecuzione di Hildegard Behrens, l’estrema teatralizzazione del canto faccia addirittura saltare alcune note della partitura! - 
La questione è sempre quella. Noi non sappiamo come veniva veramente eseguita questa musica. È un po’ il problema che si posero i primi esecutori del barocco francese in tempi moderni, non avendo appigli precedenti, soprattutto nel caso di opere in prima esecuzione moderna dopo una dimenticanza di centinaia d’anni!
Forse può servire un breve commento dello stesso Mozart a propendere per un classicismo dai risvolti imprevedibili, più demandato alla libera espressione dell’interpretazione, piuttosto che a stilemi. Alla prima dell’Idomeneo, 

«Mozart era preoccupato per la resa degli interpreti: temeva in particolare che il castrato Dal Prato non arrivasse a finire l'aria e definì Anton Raaff, il tenore che interpretava Idomeneo, "una statua". Fu invece soddisfatto dell'orchestra di Mannheim, che trovò favolosa, soprattutto gli archi, e per la quale aveva composto una partitura di straordinaria ricchezza timbrica, che per un'altra orchestra sarebbe risultata difficilmente eseguibile» (fonte Wikipedia).

Mozart, dunque, e non sarà la prima e l’ultima volta, richiede per la sua musica, partecipazione emotiva e complessità compositiva. Sono forse, queste le due chiavi per accedere in maniera più complessa alla sua musica, un uccello pazzo che abita i nidi del suo tempo solo quando ne ha voglia, capace di involarsi poi verso altre dimore, comprese quelle della nostra modernità.