Recitar cantando. Alcuni appunti


di Sebastiano Aglieco


Il teatro d’Opera, come genere musicale autonomo, nasce e si sviluppa nei secoli intorno al tema del “recitar cantando”, e cioè il complesso rapporto tra canto e parola.
È un tema che riporta alla questione insoluta della forma della tragedia greca, all’equilibrio tra “zone” prosaiche del testo e “esaltazioni emotive”. Tra forme “lunghe” (prosa, per semplificare molto, o versi lunghi), e forme sincopate (liriche).
Già nella formula “recitar cantando”, semplice dichiarazione di una diatriba combattuta a suon di cappa e spada, prevale, dopo lunghe discussioni e trattati, la scelta di dare peso alla discorsività del racconto, “recitativo”, limitando le esaltazioni liriche. La musica, dunque, accompagna la parola narrata, sottolineandone gli accenti e le sfumature emotive, da qui la sensazione, spesso, di monotonia dell’ascolto nelle opere del primo barocco.
Si tratta di un procedimento di grande semplificazione delle complicate strutture della musica polifonica in cui il complesso intreccio delle linee melodiche soffocava la parola e quasi ne impediva la fruizione.
Questa esigenza di narrazione forte ebbe come conseguenza l’utilizzo, o la creazione, di testi (libretti), ricavati dalla grande letteratura - fenomeno assai evidente in particolare nel barocco francese - perfettamente autonomi, in termini di risultati artistici, dalla partitura musicale.
Del resto, il grande risalto dato alla narrazione, è anche giustificato dal passaggio, avvenuto assai rapidamente, da teatro d’opera riservato alle classi aristocratiche, a teatro d’opera “volgarizzato”, diventato talmente popolare da costituire un vero e proprio fenomeno sociale, culturale ed economico.
Lungo tutto l’arco del Settecento, l’opera italiana del secondo barocco è un prototipo di forme che si irradia in tutta Europa - difficile distinguere da un punto di vista formale, sempre che non si abbia una preparazione musicale molto tecnica, un’opera italiana da un‘opera di Handel, di Hasse… -
Il rapporto tra canto e parola si stabilizza nel nome di una prevalenza della linea melodica, “aria”, ridimensionando il ruolo del recitativo che così si fa assai breve e sembra avere il compito di preparare “il canto alto”.
Il racconto si struttura secondo una successione di arie di vario genere e forma, in grado di garantire una varietà di stati d’animo, di organizzare i rapporti tra i personaggi, ora diventati veri e propri “tipi”, ognuno dotato di un ventaglio di possibilità vocali.
È il teatro d’opera francese a discostarsi notevolmente da questo modo di procedere. Occorre ascoltare le opere da Lully fino a Rameau, almeno, per rendersi conto di come sia stata mantenuta un’unità di forma e contenuto che riporta alle origini - Monteverdi, Cavalli…  - malgrado una maggiore accentuazione del clima melodico e persino una sperimentazione della struttura armonica, probabilmente più azzardata che nell’opera italiana – si ascolti Hippolyte et Aricie di Rameau - . Il tutto preservando un fluire quasi continuo tra recitativo, aria, pantomina, danza, secondo un’idea di blocco armonico unico, primo concetto di opera totale che sarà l’ossessione e l’ideale del futuro Romanticismo fino a Wagner e oltre - ma già a partire dal Neoclassicismo - .
Se nel Settecento le forme musicali dell’opera barocca si stabilizzano in strutture drammatiche prevedibili - successione e blocchi di arie variate - è proprio all’opera francese si rivolgerà Gluck per la sua riforma; basti ascoltare la versione francese del suo Orfeo ed Euridice per accorgersi di come le nuove soluzioni siano assimilabili, almeno in parte, al modello francese.
Nel contesto del nuovo impianto musicale, il valore della narrazione è nuovamente demandato a un recitativo/declamato e l’aria ne costituisce un tassello, giustificato dalle esigenze della drammaturgia.
Da Gluck a Mozart - quantomeno l’ultimo Mozart de La Clemenza di Tito, ma riprendendo la lezione antecedente dell’Idomeneo - il passo è breve. E siamo già nel clima del Neoclassicismo e del futuro Grand Opéra francese, evoluzione naturale della “Tragédie lyrique”, in cui il racconto assume dimensioni musicalmente monumentali e la lezione di una ben più solida unità drammaturgica è ormai consolidata.
Difficile ingabbiare l’estetica romantica nel tema puro del rapporto tra il recitare e il cantare in quanto la questione è fluita nel tema, più ambizioso, dell’opera totale, autonoma e indipendente, almeno sulla carta, da motivazioni esterne: economiche (il rapporto tra pubblico, cantanti e impresario); culturali e storiche: il rapporto con i movimenti estetici e con la censura politica). Ma è chiaro che la questione continui a serpeggiare tra le righe ed è tema che permette di verificare la consapevolezza raggiunta verso una musica del futuro: in Verdi, in modo progressivo, in Wagner in modo più bruciante e repentino.
L’opera totale è drammaturgicamente dipendente solo dalle sue strutture e cause interne in cui torna a prevalere il racconto, declinato nelle forme rivisitate e reinventate del declamato antico, o in blocchi di narrazione - maggiormente nell’opera italiana -  in cui sembrano cementarsi i tasselli di sequenze narrative che si concludono con un climax, prima della ripresa successiva. Diversamente, ascoltando l’opera barocca, risulta evidente come si abbia la percezione di un procedere continuo, di un tempo “allungato”, persino “utilitaristico”, giustificato dalla funzione sociale e ricreativa dell’opera.
Nel corso del Novecento, la ricerca dell’unità dell’opera musicale si declina nel prevalere di estetismi, cioè di autonomia di pensiero e scelte che sembrano non tenere più conto di alcune  spinose questioni: rapporto con un pubblico (fruizione); spinte economiche, (finanziamenti, impresari, tenuta culturale dell prodotto).
Per finire: è interessante notare, proprio in base a una maggiore autonomia di pensiero del compositore, destinato a pagare, però, lo scotto di una solitudine epocale, come l’antica questione del “recitar cantando” abbia trovato soluzioni del tutto personali.
Tre esempi, immaginabili in stretto rapporto con le invenzioni del Pelléas et Mélisande di Debussy:

Nell’opera di Musorgskij, ascoltiamo un declamato costante accompagnato da forme orchestrali forti; un continuum musicale tra voce e orchestra che attinge le sue motivazioni dall’ambiente sociale e culturale, e forse, azzardo un’ipotesi, dal canto liturgico del rito bizantino in cui “L’intensità espressiva del canto corrisponde all’unione indissolubile fra il testo e la musica (…)” e dove l’individuo scompare e si assorbe nella sobornost’ (= comunità) degli uomini” (V. Dordolo).
Si veda la grande importanza che il coro riveste nell’opera di Mussorskij, vera comunità portatrice di un canto che partecipa, esprimendo nelle sue motivazioni, una specie di psicologia comunitaria.

Janáček è influenzato dai risultati musicali soprattutto di Musorgskij, unitamente all’ispirazione autenticamente nazionale del compositore russo. Egli conduce, dunque, uno studio sulla vocalità del canto popolare, concentrandosi sulle inflessioni ritmiche del linguaggio parlato, delle “piccole melodie della parola”. La metrica che egli adotta, è, di conseguenza, assai irregolare, così come i nuclei melodici. Siamo ancora una volta in una declinazione nuova del “recitare”, la strada che ormai ha preso la musica del novecento in fatto di teatro d’Opera, ricollegandosi, con moduli del tutto nuovi, alla tradizione del vecchio “recitar cantando”.

L’ultimo esempio, forse il più radicale, è quello di Carl Orff.   
In “Antigone”, la sua opera più rivoluzionaria e innovativa, egli utilizza un recitativo salmodiante accompagnato dai suoni di un’orchestra estremamente percussiva, a sottolineare gli accenti del parlato, nel contesto dell’utilizzo di una specie di “recto tono” -  tono lineare - ancora una volta in relazione con le cadenze del canto liturgico, e di melismi che sembrano ricondurre le variazioni del precedente canto barocco alla loro archeologia. La parola, insomma, acquista una posizione di assoluta centralità, in quanto “il ritmo ed il melos nascono dal corpo stesso della parola”, ricollegandosi alla danza, l’altro elemento perduto della tragedia greca.
Credo che, in fondo, nello sfondo di queste operazioni musicali, ci sia il tentativo di centralizzare il teatro d’Opera in funzione del suo valore etico perduto, della sua vocazione profondamente sociale.
Il dopo è uno sfaldamento delle forme musicali che non consente più di riportare le scelte stilistiche nell’ambito di un rapporto con la tradizione, e forse è questo il motivo del declinio dell’Opera come genere musicale. Solo la “tradizione” continua a rigenerarsi ad ogni ascolto e a ogni nuova rappresentazione.