di Mario Fresa
Un
respiro che si fa, adesso, sguardo immaginato. Memoria
di un altissimo stupore. Quel respiro dolcemente soffocato è l’estremo sguardo
che si rivolge allo specchio amato e malinconico (malinconico perché amato!) dell’esistenza.
Commiato tenero e crudele: e coraggiosamente, come Agrippina prima di cadere
nell’agguato teso dal suo tirannico figlio, quello sguardo dice alla morte-vita
della musica: «Colpisci qui»; (la musica che noi scegliamo ci fa conoscere,
forse, in anticipo, le ultime parole che noi pronunceremo?).
Ma in
questa alta e momentanea luce finale l’occhio stesso si fa superbo circolo
affatato. È sospeso, con la magnifica stupefazione del proprio quasi svanire
(del proprio essere visibile-invisibile: così vivo da morirne!), e si abbandona
a un viaggio interminabile.
Ecco
il senso meraviglioso della morte-vita che è inciso nel respiro sempre finale (e
sempre, dunque, superiormente conoscitivo) della musica.
Quante
volte il nostro sguardo ha mutato colore, identità, pensiero? Quante età ha
avuto, e anche adesso ha, il nostro sguardo? Possiamo mai dire di ascoltare la
stessa musica con l’innocente presunzione di comprenderla con il medesimo
sguardo con il quale noi l’avevamo scorta soltanto un giorno prima o un mese
prima o un anno prima?
La
musica dice il distacco dall’essere e la malinconia di uno sguardo ultimo e
rovinoso che, simile a quello stupìto del dio Orfeo, si gira indietro per
mirare il volto dell’amata, ritrovandolo per un istante infinito e perdendolo
per sempre. La seduzione della musica è appunto incisa nel tempo assoluto di
quel girarsi, la cui movenza è sacra, perché eterna (ed è
sacra ed eterna perché vissuta da ciascuno di noi); ed è incisa, ancor di più,
nella vita sparente di un’apparizione che si apre e muore in quella vertiginosa
coincidenza di istanti irriferibili, mai dicibili del tutto, che
possiamo avvertire quando tutto è perduto; o quando tutto inizia.
«Qual
è l’essenza della musica per me? È il rumore soffocato che fece Tiberio morente
– soffocato tra due materassi sotto le mani di Macrone» (Pascal Quignard).
Il
compositore Wolfgang Rihm, nato nel 1952, ha spesso riformulato e riscritto le
sue opere, consapevole della mutevolezza e della indicibilità di quello sguardo
orfico, definitivo e indefinibile, così intimamente legato all’intuizione
musicale, al quale noi tendiamo sin dalla nascita. Esemplare è l’operazione
compiuta sul corpo di Jagden und Formen: opera metamorfica nata da
tre composizioni precedenti, realizzate negli anni Novanta, e più volte
ridisegnata, trasformata, arricchita, demolita, ricostruita. Come se lo sguardo
di Orfeo e il respiro soffocato di Tiberio morente ricominciassero il loro
estremo stupore daccapo, all’infinito, senza nessuna tregua.
La
lingua musicale si esprime, qui, come una ragna che s’allarga senza requie.
S’allarga e scompare; e ricompare con un nuovo sogno risorgente, ossessivo, che
ancora si riallarga e si dilata, correndo precipitando saltando come un divino
o bestiale cacciatore inebriato dall’ansia di fuggire dalla morte (o come una
preda braccata dal suo stesso dolore, specchio del proprio essere eternamente
sparente).
La
composizione s’intitola, appunto, Cacce e forme: la fuga-rincorsa,
divina e bestiale, s’inizia con un aspro e luminoso schiocco di frusta; e
sùbito due violini giocano a rispecchiarsi e a combattere tra loro, formulando
un discorso aguzzo e impenetrabile; e poi si aggiungono, simili a una potente e
infaticabile muta, altri nervosi e inesausti strumenti: i fiati e gli ottoni.
Quindi
si accende e sommamente risplende, sopra tutti, il corno inglese: esso è il
divino segnale dell’inizio, della partenza e, infine, dell'abbandono della
caccia. Tutto precipita dal nulla al nulla. Tutto danza nel circuito ansioso di
un tempo in sei ottavi (il tradizionale tempo della caccia), respirando come un
sogno dolcemente mortale.
Le
forme liquide e cangianti di questa composizione diventano, allora, un
appassionato segnale di rivincita dell’uomo contro la malvagia imperturbabilità
divoratrice della Natura; ché l’uomo-artista rende sospeso e infinibile
l’istante rivelatorio del proprio commiato terreno, diventando, nella dionisiaca
dimenticanza del proprio sé, un corpo saettante e plurimo: un corpo-danza che
giammai potrà farsi sorprendere dalla seconda morte dello
spirito.
Non è
forse, l’arte, la sola risorsa davvero spirituale dell’uomo
preda della morte, dell’uomo cacciatore di sé stesso?
Jagden und Formen (1995-2001).
Ensemble
Intercontemporain,
Cornelius Meister.