Variazioni Go(u)ldberg



di Mario Fresa 



Quale strumento per le Goldberg?

Ha davvero senso, dovremmo domandarci, usare oggi il pianoforte per eseguire le Variazioni Goldberg, considerato che lo strumento, così come noi lo conosciamo, era del tutto ignoto a Bach? (e lasciamo perdere i primi fortepiani di Silbermann, vagliati e non del tutto approvati dal sommo musicista: essi erano qualcosa di molto diverso dai nostri pianoforti; così come lo erano i fortepiani, e poi i pianoforti, costruiti nei decenni successivi…).

Per quale strumento erano state scritte le Goldberg? Non abbiamo a disposizione un manoscritto autografo bachiano; il frontespizio della prima edizione a stampa specifica che le Variazioni sono destinate a un Clavicimbal mit 2 Manualen
Risulta indispensabile, intanto, la doppia tastiera (lo sanno bene i pianisti che fanno salti mortali per superare gli scogli tecnici dell’unica tastiera del pianoforte).
Sicché, dunque, utilizzare uno strumento che non sia un Clavicimbal mit 2 Manualen è sempre... una infrazione e un tradimento.
Ma quale altro tipo di tastiera avrebbe accettato Bach? Senza dubbio il clavicordo, strumento da lui preferito, a quanto pare, addirittura, allo stesso clavicembalo (ce lo fa sapere il suo primissimo biografo, Johann Nikolaus Forkel). Noi vorremmo aggiungere, peraltro, che un’esecuzione sul clavicordo rispetterebbe a meraviglia l’intrinseca natura intimistica e riservata dell’opera: giacché eseguire le Goldberg in pubblico, ad esempio in una grande sala di concerto, è un ulteriore forma di tradimento dello spirito esclusivo e raffinato della composizione, ch’era  – ed è ! – destinata a un ristretto cerchio di pochi e scelti intenditori...

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La galleria delle interpretazioni di questo capolavoro è nutrita e molta varia.
I bachiani conoscono bene l’incisione discografica delle Goldberg di una grande e temeraria pioniera, Wanda Landowska. La vulcanica virtuosa polacca si era fatta costruire, da Pleyel, uno strano, assurdo, sferragliante clavicembalo-pianoforte: una specie di strumento – minotauro che difficilmente sarebbe piaciuto a Bach.
Le cose non sono andate meglio quando, nei tempi successivi, si è cominciato a utilizzare, per le Goldberg, il pianoforte moderno: si è avvertita, allora, la sensazione di una presenza sonora ingombrante, prossima ad appesantire e a offuscare il cristallo puro della musica bachiana…

Quale strumento scegliere, dunque? Meglio il clavicembalo-monstre landowskiano, filologicamente inaccettabile, o il moderno pianoforte-monstre, altrettanto inattendibile? Meglio i clavicembali davvero autentici e antichi (ma intanto restaurati e dunque trasformati…), oppure le varie copie dei clavicembali fintamente originali suonati dai vari “barocchisti” (rigorosi, ma spesso glaciali) come Gilbert, Pinnock, Van  Asperen, eccetera?

Si potrebbe, certo, tentare una via di mezzo: non sarebbe sbagliato, per esempio, ricuperare la finezza introspettiva, lieve, raccolta, del lautenwerk (uno splendido strumento, molto amato da Bach; una copia di esso è stata utilizzata, per le Goldberg, da un sensibile organista-cembalista-pianista bachiano di oggi, Wolfgang Rübsaum; si tratta, però, di uno strumento la cui ricostruzione è problematica, perché non ci è rimasto, purtroppo, alcun esemplare autentico).


«Diffidiamo del buonsenso e del cuore…» (Baudelaire)

Per lungo tempo, l’esecuzione che ha tenuto banco è stata quella registrata nei primi anni Ottanta da Glenn Gould. È una delle varie incisioni gouldiane del capolavoro di Bach (le prime risalgono agli anni Cinquanta). Ciascuna di esse è un notevole e singolare falso storico.

Concentriamoci sull’ultima incisione (1981). Prendiamo subito in esame l’Aria: essa è suonata con un tempo misteriosamente dilatato (il modello evidente è Rosalyn Tureck), il cui suono sembra quasi provenire da una sorta di remotissima, atemporale, sospesa alterità, o dalle distanze siderali di una dimensione del tutto estranea a questo mondo… E il pianoforte assume, poi, sotto le dita dell’anarchico interprete, un aspetto sonoro luminosamente perlato e raccolto (è un suono che ha qualcosa di fantasmatico e di “inattuale”, e che evoca lo spettro di un pianoforte tipico della Biedermeierzeit:  ad esempio un pianoforte di Joseph Angst...).
Un suono che è, di certo, comunque, lontano le mille miglia dallo strumento che utilizzava (o che aveva in mente) Bach. Ciò perché nelle Goldberg (e, in generale, nelle musiche bachiane destinate alla tastiera) il pianoforte resta sempre uno strumento oppresso da una certa ingombrante pesanteur… specie se vogliamo confrontarlo con la trasparente finezza del clavicordo o con l’aperta e fluida lucentezza del clavicembalo. Tuttavia, Gould sa stemperare l’invadenza del timbro pianistico perché decide, qui, di suonare, o meglio di “pensare”… da cembalista: e non tanto lavorando in senso puramente coloristico, ma in senso strutturale: ché egli restituisce sempre, con caparbia sollecitudine, l’esatta trasparenza contrappuntistica e la precisa fisionomia delle trame polifoniche di ogni singola Variazione; e sceglie, poi, un’articolazione secca e puntuta, costantemente fondata sull’insistenza (spesso un po’ macchinale) del non legato.

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Soffermiamoci, ora, per un istante, su questa mania gouldiana del non legato. Non è un semplice vezzo testardo (o meglio: non è soltanto un vezzo testardo); il pianista si rifiuta di eseguire il legato perfino quando Bach lo prescrive in modo inequivocabile (ad esempio nella Invenzione a due voci n. 3). Si capisce, allora, che questa sua ossessione non è una semplice braveria, provocatoriamente fine a sé stessa: si tratta, invece, di una convinta, irrevocabile dichiarazione di guerra alle infezioni della passione e del sentimento (Gould, una volta, si lamentò di Sir John Barbirolli, dicendo di lui: “Spesso si fa trasportare dalla passione…”).

Il tocco secco, oggettivo e scostante del non legato di Gould è una severa e assoluta forma di protesta contro… il Romanticismo. È, insomma, un deciso No al lirismo e all’eccesso di zuccheri: e si potrà ben capire, allora, in questa prospettiva, che tutte le scelte dell’estetica gouldiana non vanno intese soltanto come capricciose provocazioni iconoclastiche, ma come sottili e un po’ diaboliche forme di giudizio sulla musica eseguita; e come sfide costanti rivolte alle tradizioni interpretative consolidate (soprattutto di tipo storicistico).
La pitagorica, trascendentale, superumana musica di Bach non può ricevere, secondo Gould, il torto di essere inquinata con l’ingrediente dolciastro, molle, umanamente “pacificante” del legato… E, perciò, glielo nega sempre.

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Gould taglia, nelle Goldberg, irrispettosamente, non pochi Ritornelli. Ciò è, comunque, il segno di un certa lucida e consapevole coerenza: elimina i Ritornelli perché, in ogni caso, (giudicando l’ornamento aggiuntivo un delitto di mondana frivolezza…), non li avrebbe mai e poi mai variati.


(Noterella estetica: abbiamo sempre trovato davvero sgraziati e antiestetici i mugolii e i muggiti e i mugugni che Gould ci fa sentire in questa e in altre incisioni. Ma non ce l’aveva a morte, lui, con la passione?... Questi suoi mugugni così estatici e passionali non lo fanno allontanare un poco troppo dal suo ascetico e trasumanato puritanesimo?...)



Intermezzo (per gli amici mozartiani)

(Un giorno parleremo anche del suo  - non a torto -  bistrattato Mozart, così strampalato e così… tristemente umoristico: un Mozart suonato con tempi lentissimi o supervelocissimi; dal suono secco e sbrigativo, ben poco propenso al canto; coi ritornelli quasi tutti impunemente tagliati; col solito spigoloso, saltellante, dispettoso non legato; con gli abituali mugugni emessi in sottofondo; e, naturalmente, coi da capo non variati, ma straccamente ripetuti tali e quali; e con una totale assenza del rubato.
Ma di ciò un’altra volta…)


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Il dominio tecnico dello strumento è, certo, infallibile e magistrale.
Lo stesso uso dei colori e dei contrappesi sonori è calibratissimo e sempre vario e cangiante (e ciò fa parte, paradossalmente, dell’uso non clavicembalistico del pianoforte gouldiano  - e, dunque, della coerente incoerenza di Gould: giacché appunto del pianoforte egli vuole utilizzare, con maniacale volontà esplorativa, tutte le possibili gradazioni dinamiche non ottenibili dal clavicembalo).


Il falso storico delle Goldberg eseguite da Gould è diventato, oggi, paradossalmente, … un classico intoccabile, entrato ormai nella Tradizione dell’interpretazione bachiana (ed è sempre, si capisce, questo superclassico, ammiratissimo dai non pochi gouldomani, che trovano musicali perfino i suoi muggiti di accompagnamento…: e anzi, il trombonesco Mario Bortolotto, un critico simpatico quanto il drago Fáfnir, scrisse incredibilmente, a proposito dei mugugni di Gould, ch’essi somigliavano «alla innere Stimme che Busoni segna, talvolta, nella sua famigerata e geniale edizione [bachiana]»…). Innere Stimme? Ohibò…


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Anche noi riascoltiamo spesso questa incisione: non solo per lo studio ammirato della perfetta tecnica del Canadese; ma anche per tenere bene a mente tutto ciò che un’esecuzione bachiana, almeno dal punto di vista di una ideale (e perciò impossibile) ricostruzione storica, non dovrebbe prevedere…



Le Variazioni Goldberg (nn. 1-4)

Gould parla dell'uso del pianoforte in Bach