di Sebastiano Aglieco
Il celebre Requiem di Mozart è opera che è
difficile sottrarre alla sfera del mito. L’alto tasso di drammaticità che
contiene, in parte è dovuto al genere musicale in sé, ma sicuramente ricorda
certe esplosioni emotive della musica di Mozart, penso alla scena finale del Don
Giovanni, all’aria di Cassandra nell’Idomeneo…ma anche l’aria della
regina della notte, in funzione di una melodia eterea, raggelata, seppur
potente.
Il Requiem è un’opera, mi sembra, capace di
riassumere il carico “ieratico” della musica antica, conducendolo alla sua
conclusione storica.
E tuttavia rimane opera misteriosa, una bolla a sé
nella produzione di Mozart, febbrile e disperata, capace di sottolineare, più
di tutti gli altri requiem, i momenti di perdita e difficoltà che l’Umanità
attraversa: celebre l’esecuzione tra le mura diroccate della biblioteca di
Sarajevo, ai tempi della guerra.
Non sappiamo quali e quanti passaggi di questa
musica siano stati scritti veramente da Mozart, ma mi sembra questione irrilevante;
è chiaro che la forma finale è il risultato di un trascinamento che i nuclei
originali sono capaci di mettere in atto.
L’inizio risiede proprio in quelle battute
zoppicanti dell’Introitus che, se eseguite assai lentamente - si ascolti
la versione monumentale di Celibidache - ricordano proprio lo zoppicare di un
uomo vecchio, “il vecchierel canuto e stanco” dopo il lungo tragitto della vita
che si appressa verso l’Eterno. Che si “introduce”, volendo tradire la
semantica...
Subito dopo le note suonate dalla sola orchestra,
attacca il coro, in progressione ascendente, come ad accompagnare questo
cammino…e infine la voce, femminile, la madre che accoglie fra le braccia.
Se la musica è linguaggio a sé, privo di alcun
riferimento a una lingua umana comprensibile, a volte è necessario puntellarla
con immagini, con riferimenti contestuali alla nostra condizione umana. In
questo ascolto può essere utile, oltre che necessario.