di Sebastiano Aglieco
Ecco che allora possiamo rimanere vittime di due diversi
condizionamenti: o una censura spietata, una chiusura a tutti i costi - come se
la musica andasse eseguita in un solo modo, sempre quello - oppure la
constatazione, più razionale questa volta, che in fondo ogni esecuzione non è altro
che una recita, la ripetizione, nel tempo, di un fatto che si trasforma in
evento.
Esecuzione: mettere in atto, portare a compimento tutte
le volte ma, paradossalmente, per sempre. Per questo detesto i commenti dei
melomani oltranzisti che assumono un modello esecutivo
"imprescindibile" per le successive esecuzioni, finendo per ragionare
come tristissimi e barbosi filosofi che rimpiangono l'età dell'oro.
Ricordo ancora il mio primo esempio "mirabile"
di esecuzione musicale - avevo circa
dieci anni -. Era il poema sinfonico "La bella Melusina", di
Mendelssohn, eseguito da Lorin Maazel. Una volta che le note sono state
emotivamente memorizzate, una volta, cioè, che esse sono andate a insinuarsi
nei risvolti profondi delle nostre motivazioni esistenziali, solo allora
cominciano a parlarci veramente nel modo in cui il regista dell'esecuzione le
ha sentite. Perché le note, all'inizio,
sono solo suoni.
Così, in quell’antichissima Bella melusina, Maazel già mi
comunicava, senza che io lo sapessi, un andamento musicale trasognante,
fascinoso, morbido, sofisticato e nello stesso tempo semplice e leggero.
Elegante, insomma, soprattutto nell'impostare i suoni, anche laddove l'armonia
risulti ruvida o di difficile controllo. Ho risentito lo stesso colore, per esempio,
nelle zone unicamente orchestrali di una Carmen, sempre eseguita da Maazel.
Naturalmente, quelle che ho usato prima, sono parole e
aggettivi che non significano nulla, che tentano di approssimarsi al fenomeno
dell'esecuzione ma non lo possono chiarire del tutto. In effetti bisognerebbe
capire, a monte, da che cosa dipenda veramente l'effetto di un'esecuzione. Io
credo che non dipenda del tutto dal modo in cui l'orchestra suona e il
direttore dirige ma molto di più dalla struttura della composizione stessa che,
diciamo, per buona parte si autopresenta, si dirige da sola. Com'era, in
effetti, prima che il mito del regista assoluto, il direttore d’orchestra, prendesse il sopravvento.
Ho un approccio all'ascolto che tende a sottovalutare
l'aspetto esecutivo, a favore, piuttosto, della composizione in sé; a
considerare l'esecuzione, a differenza di quanto avviene da bambini, una
variante, un tassello di tutte le esecuzioni possibili.
E' vero, invece, per come la vedo io, che a un direttore
come Maazel non poteva che venire bene l'esecuzione di un certo tipo di
repertorio, diciamo sommariamente postromantico, in cui l'orchestrazione della
melodia si fa più stereofonica, con effetti di impasto e brillantezza inediti
nella musica precedente.
Maazel, per vizio - o stile - esecutivo, avrebbe addolcito la scena del
commendatore nel Don Giovanni di
Mozart; oppure l'avrebbe forzata per ottenere effetti che all'epoca di Mozart
erano impensabili?
E come si comportava Maazel con la musica barocca? Preferiva un'esecuzione cosiddetta filologica? Cioè, optava per la scelta di una neutralità che, in fondo, taglia la testa del problema?
E come si comportava Maazel con la musica barocca? Preferiva un'esecuzione cosiddetta filologica? Cioè, optava per la scelta di una neutralità che, in fondo, taglia la testa del problema?
In fondo ogni progetto di esecuzione filologica è una
bella perdita di tempo, necessaria sì per aggiungere un tassello allo storia
dei modelli musicali, ma che non ci chiarisce il pensiero musicale dell'autore.
Cosa contiene, per esempio, il sottotesto di una sinfonia di Beethoven che gli
strumenti dell'epoca non riuscivano ad esprimere pienamente? E, in tale
prospettiva, qual è, allora, nella sua musica, il valore di un
"forte" o di un "fortissimo"?
Del resto, a partire dal primo romanticismo, i suoni si
fanno più "grossi" anche in rapporto all'evoluzione della sonorità
degli strumenti - tecnica, materiali,
espressività, fenomeni sociali, spesso vanno di pari passo - . Altrimenti
dovremmo pensare che Beethoven abiti totalmente il suo tempo, fatto ancora di suoni che stanno diventando
"grossi" e che quindi effetti di amplificazione sonora, in sede
esecutiva, sono arbitrari...
Del resto, tutte le volte che ascolto la scena finale del
Don Giovanni di Mozart, con quello
schianto tremendo dell'orchestra, non posso fare a meno di pensare al desiderio
di un'orchestra molto più grande di quella che il tempo di Mozart poteva
concepire, dal che ne consegue che il pensiero musicale di Mozart, componendo
quella musica costretta in un vestito
strettissimo, era sicuramente molto più
avanti di quasi tutta la musica del suo tempo.
Tornando a Maazel, e
a una questione che forse è approcciabile con minore scandalo. Qual è il
suono che lui cerca? Quello del compositore? Un'approssimazione al pensiero
dell'autore? Il suono medio dell’epoca? Ma questo è quello che raccontano tutti
i direttori d'orchestra ed è quello che probabilmente si insegna nelle scuole di
musica! La cosa che non dice nessuno, però, è che, forse ogni esecutore non fa
altro che ricercare lo stesso suono che lo ha segnato la prima volta che ha
ascoltato una musica, il suono imprinting di ogni vera esperienza emozionale.
La storia di ogni esecuzione musicale, allora, è la
risultante di una lotta non dichiarata, censurata, tra la ricerca di una
corrispondenza storica e di un suono dell'infanzia che si ripresenta alla
memoria. Perché, forse, quando ascoltiamo, non facciamo altro che ricordare.
Qual è il suono dell'infanzia del bambino prodigio Lorin
Maazel già direttore d'orchestra a otto anni?
In alto, puoi vedere un dipinto di Niccolò dell'Abate.
Il titolo dell'opera è: Concerto.
Il titolo dell'opera è: Concerto.